Sono tanti i film validi che
hanno un titolo così ridicolo o fuorviante da non riuscire ad
incontrare buona parte del proprio potenziale pubblico.
Gli esempi sono tanti,
soprattutto nel nostro cinema giallo degli anni '70 (Una sull'altra,
Non si sevizia un paperino, Ragazza tutta nuda
assassinata nel parco...), ed ogni tanto la cattiva consuetudine
riaffiora anche nel cinema 'sociale' di oggi, come nel caso di VOLEVO
SOLO DORMIRLE ADDOSSO.
Sembrerebbe uno stucchevolissimo
film d'amore o una storia sull'impotenza maschile, se non ci si informasse
del contenuto, e, almeno nella prima ipotesi, chissà quante sognanti
spettatrici saranno rimaste deluse da questa validissima pellicola, così
dinamica, vera e strutturata da farci capire all'improvviso quanto sia mancato
nel cinema italiano un film sul mercato del lavoro in
cui le parentesi esistenziali fossero descritte
senza pretenziosità e con spunti di umorismo puro, col valore aggiunto
di non essere pungente né corrosivo, ma semplice come è nella vita
reale di chiunque, anche del più ingrigito impiegato di banca. Siamo lontani
quindi sia dal sarcasmo del bellissimo La classe operaia va in
Paradiso sia dalla freddezza dei recenti film francesi come Risorse
umane o A tempo pieno.
Qui si tratta di un'azienda
che vende microchip la cui crisi sembra viaggiare parallela a quella
personale del protagonista Giorgio Pasotti, alimentando nello spettatore
un senso di ineluttabile identificazione tra il personaggio e la sua “casa
madre”, inanimati entrambi su uno sfondo di una Milano buia, spietata eppure
festaiola. Lui ha l'aria rassegnata di uno che si lascia vivere senza slanci né
lamentele, l'aria di uno che da tempo non pensa più e ne è contento. La sua
ragazza, Cristiana Capotondi, è una logorroica vessatrice d'animi che lo
vorrebbe fuori dal guscio, ma senza un minimo di dolcezza o di
comprensione, trasportandolo da una festa all'altra chiamandolo
pubblicamente “el muerto”, non distinguendosi più, lei del mondo esterno, dalla
durezza di una donna che Pasotti incontra sul lavoro, la
collaboratrice orientale del delegato dell'azienda francese che fa capo
alla sua, il quale impone al nostro 25 drastici tagli al
personale in due mesi (prima di Natale) senza far sollevare polveroni
sindacali in cambio di un sussidio e della poltrona di capo del personale. E'
chiaro che se i licenziati saranno 24 o l'ambiente sarà turbato in modo
visibile, lui verrebbe a perdere tutto.
E qui si hanno gustose e tragiche
carrellate di convocazioni in ufficio dei dipendenti (per i quali Pasotti era
stato in passato quasi un fratello maggiore) a più riprese in mezzo alla
storia, fra rivelazioni clamorose di informazioni insabbiate e menzogne dette
più per indorare la pillola e azzittire gli interlocutori togliendogli
le armi del discorso piuttosto che per convincerli sul serio che sia un bene
lasciare l'azienda, tramite pure sfide oratorie.
Il
protagonista fa il possibile per non lasciarsi trasportare troppo dai problemi
degli ex colleghi ma senza riuscirci e mandando su tutte le furie la sua
insensibile ragazza, che decide di averne abbastanza.
Arriverà a 24 e creerà tensione
in azienda proprio come sperava il delegato dalla Francia, ma licenziando
se stesso arriva a 25 e intasca il sussidio, pronto per cercare un altro
impiego da vincitore.
Un personaggio molto secondario
eppure incisivo è quello della cubista nera in cui Pasotti vede l'altro
lato della femminilità, quella più pura, denevrotizzata e quieta, non a caso
proveniente da un mondo e da uno strato sociale totalmente diverso. Ed è
l'unico contraltare femminile di questo tipo, se si eccettua la voce di sua
madre al cellulare, sempre premurosa anch'ella, sì, ma perché è madre e, forse,
perché di un'altra epoca.
Come accennavo inizialmente, il punto
di forza emotivo di questo film sta proprio nel senso di ineluttabilità delle
cose accettato con una certa rassegnazione, il che rende il
tutto sapientemente inquietante. Ineluttabilità che si nota anche
nella scelta dell' “angelo nero” di sparire silenziosamente appena
sente casualmente un lieve accenno di un possibile riavvicinamento tra
Pasotti e la sua ex, facendo evitare inutili imbarazzi e scelte sofferte. E lo
fa col sorriso sulle labbra.
Il ritratto di una società in cui
non si può più sperare di cambiare nulla che viene da questo film a
suo modo spietato ci fa venire il sospetto di avere “perso qualche colpo” non
cogliendo e non raccontando, in passato, i vari momenti di trasformazione
della mentalità italiana avuti negli ultimi anni. Mai si era visto un
professionista di belle speranze e con una bella ragazza al suo
fianco vivere in uno squallido monolocale in cui non viene rispettato
neanche dalla donna delle pulizie: la crisi finanziaria è all'improvviso
entrata nel mondo del Cinema.
Merito è soprattutto dell'autore
del libro da cui è stata tratta la pellicola se la descrizione è così
puntuale, visto che vi è descritta la sua vicenda personale (autore anche di Come
innamorarsi di una milanese), ma i tempi e il ritmo del film vengono
dal talento di Eugenio Cappuccio, non esordiente ma ancora ritenuto una
'promessa' che si spera non venga mai annacquata dalla tv come è
successo per Carlo Carlei.
Cristiana Capotondi si è
scrollata finalmente di dosso il ruolo di eterna ragazzina stile Carla Gravina
prima maniera che avevamo conosciuto nelle commedie di Boldi.
Per quanto riguarda il non
azzeccato titolo del film, non ho potuto fare a meno di ripensare ad un
discorso che mi era capitato di affrontare in una tavolata di un recente sabato
tra amici: io e pochi altri rappresentanti del genere
maschile sostenevamo che dire “ti amo” o più originali perifrasi
come “ti voglio bene”, “Non riesco a immaginarmi senza di te”
oppure “Per te provo del
sentimento vero” fosse la stessa cosa, magari con un piccolo
sforzo di pensiero in più; beh, le donne della tavolata sono insorte contro
questa idea. Per loro il classicissimo “ti
amo” era insostituibile. Così come per il personaggio della
Capotondi, che rimprovera il suo ragazzo di esprimere il suo sentimento dicendo
soltanto “voglio dormirti addosso” e
non accontentandosi della puntualizzazione di quest'ultimo che le spiega “per me è come dire ti amo”.
Per carità, la ragazza può avere
le sue ragioni, ma, per quel che vale, ho voluto raccontare questo mio episodio
come forse (e sottolineo forse) qualcosa di significativo tra la
mentalità maschile per cui vale solo il concetto, e quella femminile, che vuole
la chiarezza anche nella forma.
Per finire, come per ogni film
che si rispetti, sono da segnalare almeno due scene memorabili, non a caso
riguardanti le figure femminili: la prima uscita di Pasotti con la misteriosa
amica di colore e l'espressione della Capotondi nel vederlo, dopo una
notte di sesso, lavorare al computer nudo, seduto sul water e con un wurstel in
bocca.
Come dire le due facce della
storia.
Giovanni Modica (recensione fatta
nell’ottobre del 2004)
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