venerdì 8 marzo 2013

VOLEVO SOLO DORMIRLE ADDOSSO di Eugenio Cappuccio

Sono tanti i film validi che hanno un titolo così ridicolo o fuorviante da non riuscire ad incontrare buona parte del proprio potenziale pubblico.
Gli esempi sono tanti, soprattutto nel nostro cinema giallo degli anni '70 (Una sull'altra, Non si sevizia un paperino, Ragazza tutta nuda assassinata nel parco...), ed ogni tanto la cattiva consuetudine riaffiora anche nel cinema 'sociale' di oggi, come nel caso di VOLEVO SOLO DORMIRLE ADDOSSO.
Sembrerebbe uno stucchevolissimo film d'amore o una storia sull'impotenza maschile, se non ci si informasse del contenuto, e, almeno nella prima ipotesi, chissà quante sognanti spettatrici saranno rimaste deluse da questa validissima pellicola, così dinamica, vera e strutturata da farci capire all'improvviso quanto sia mancato nel cinema  italiano un film sul mercato del lavoro in cui le parentesi esistenziali fossero descritte senza pretenziosità e con spunti di umorismo puro, col valore aggiunto di non essere pungente né corrosivo, ma semplice come è nella vita reale di chiunque, anche del più ingrigito impiegato di banca. Siamo lontani quindi sia dal sarcasmo del bellissimo La classe operaia va in Paradiso sia dalla freddezza dei recenti film francesi come Risorse umane o A tempo pieno.
Qui si tratta di un'azienda che vende microchip la cui crisi sembra viaggiare parallela a quella personale del protagonista Giorgio Pasotti, alimentando nello spettatore un senso di ineluttabile identificazione tra il personaggio e la sua “casa madre”, inanimati entrambi su uno sfondo di una Milano buia, spietata eppure festaiola. Lui ha l'aria rassegnata di uno che si lascia vivere senza slanci né lamentele, l'aria di uno che da tempo non pensa più e ne è contento. La sua ragazza, Cristiana Capotondi, è una logorroica vessatrice d'animi che lo vorrebbe fuori dal guscio, ma senza un minimo di dolcezza o di comprensione, trasportandolo da una festa all'altra chiamandolo pubblicamente “el muerto”, non distinguendosi più, lei del mondo esterno, dalla durezza di una donna che Pasotti incontra sul lavoro, la collaboratrice orientale del delegato dell'azienda francese che fa capo alla sua, il quale impone al nostro 25 drastici tagli al personale in due mesi (prima di Natale) senza far sollevare polveroni sindacali in cambio di un sussidio e della poltrona di capo del personale. E' chiaro che se i licenziati saranno 24 o l'ambiente sarà turbato in modo visibile, lui verrebbe a perdere tutto.
E qui si hanno gustose e tragiche carrellate di convocazioni in ufficio dei dipendenti (per i quali Pasotti era stato in passato quasi un fratello maggiore) a più riprese in mezzo alla storia, fra rivelazioni clamorose di informazioni insabbiate e menzogne dette più per indorare la pillola e azzittire gli interlocutori togliendogli le armi del discorso piuttosto che per convincerli sul serio che sia un bene lasciare l'azienda, tramite pure sfide oratorie.
Il protagonista fa il possibile per non lasciarsi trasportare troppo dai problemi degli ex colleghi ma senza riuscirci e mandando su tutte le furie la sua insensibile ragazza, che decide di averne abbastanza.
Arriverà a 24 e creerà tensione in azienda proprio come sperava il delegato dalla Francia, ma licenziando se stesso arriva a 25 e intasca il sussidio, pronto per cercare un altro impiego da vincitore.
Un personaggio molto secondario eppure incisivo è quello della cubista nera in cui Pasotti vede l'altro lato della femminilità, quella più pura, denevrotizzata e quieta, non a caso proveniente da un mondo e da uno strato sociale totalmente diverso. Ed è l'unico contraltare femminile di questo tipo, se si eccettua la voce di sua madre al cellulare, sempre premurosa anch'ella, sì, ma perché è madre e, forse, perché di un'altra epoca.
Come accennavo inizialmente, il punto di forza emotivo di questo film sta proprio nel senso di ineluttabilità delle cose accettato con una certa rassegnazione, il che rende il tutto sapientemente inquietante. Ineluttabilità che si nota anche nella scelta dell' “angelo nero” di sparire silenziosamente appena sente casualmente un lieve accenno di un possibile riavvicinamento tra Pasotti e la sua ex, facendo evitare inutili imbarazzi e scelte sofferte. E lo fa col sorriso sulle labbra.
Il ritratto di una società in cui non si può più sperare di cambiare nulla che viene da questo film a suo modo spietato ci fa venire il sospetto di avere “perso qualche colpo” non cogliendo e non raccontando, in passato, i vari momenti di trasformazione della mentalità italiana avuti negli ultimi anni. Mai si era visto un professionista di belle speranze e con una bella ragazza al suo fianco vivere in uno squallido monolocale in cui non viene rispettato neanche dalla donna delle pulizie: la crisi finanziaria è all'improvviso entrata nel mondo del Cinema.
Merito è soprattutto dell'autore del libro da cui è stata tratta la pellicola se la descrizione è così puntuale, visto che vi è descritta la sua vicenda personale (autore anche di Come innamorarsi di una milanese), ma i tempi e il ritmo del film vengono dal talento di Eugenio Cappuccio, non esordiente ma ancora ritenuto una 'promessa' che si spera non venga mai annacquata dalla tv come è successo per Carlo Carlei.   
Cristiana Capotondi si è scrollata finalmente di dosso il ruolo di eterna ragazzina stile Carla Gravina prima maniera che avevamo conosciuto nelle commedie di Boldi. 
Per quanto riguarda il non azzeccato titolo del film, non ho potuto fare a meno di ripensare ad un discorso che mi era capitato di affrontare in una tavolata di un recente sabato tra amici: io e pochi altri rappresentanti del genere maschile sostenevamo che dire “ti amo” o più originali perifrasi come “ti voglio bene”, “Non riesco a immaginarmi senza di te” oppure “Per te provo del sentimento vero”  fosse la stessa cosa, magari con un piccolo sforzo di pensiero in più; beh, le donne della tavolata sono insorte contro questa idea. Per loro il classicissimo “ti amo” era insostituibile. Così come per il personaggio della Capotondi, che rimprovera il suo ragazzo di esprimere il suo sentimento dicendo soltanto “voglio dormirti addosso” e non accontentandosi della puntualizzazione di quest'ultimo che le spiega “per me è come dire ti amo”.
Per carità, la ragazza può avere le sue ragioni, ma, per quel che vale, ho voluto raccontare questo mio episodio come forse (e sottolineo forse) qualcosa di significativo tra la mentalità maschile per cui vale solo il concetto, e quella femminile, che vuole la chiarezza anche nella forma.
Per finire, come per ogni film che si rispetti, sono da segnalare almeno due scene memorabili, non a caso riguardanti le figure femminili: la prima uscita di Pasotti con la misteriosa amica di colore e l'espressione della Capotondi nel vederlo, dopo una notte di sesso, lavorare al computer nudo, seduto sul water e con un wurstel in bocca.
Come dire le due facce della storia.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nell’ottobre del 2004)

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