domenica 26 maggio 2013

LA GRANDE BELLEZZA di Paolo Sorrentino

Finalmente, "La grande bellezza". Forte di un pregiudizio maturato negli ultimi quindici anni, non avrei scommesso una cicca sugli episodi con Sabrina Ferilli e con Carlo Verdone. Eppure sono quelli i più riusciti di un film su cui, forte di un pregiudizio opposto maturato negli ultimi dieci anni, avrei scommesso di più. Forse funzionano perché sono loro Roma. Due personaggi che fanno tenerezza, senza lati oscuri e che perlopiù subiscono le situazioni circostanti in modo diverso ma egualmente sfumato sul piano recitativo: Ramona (Ferilli) rappresenta l’accettazione, il commediografo (Verdone) è invece troppo sensibile e ambizioso per non continuare a mettersi in gioco accusare il colpo tutte le volte. Loro sono gli unici personaggi che rappresentano la sofferenza contenuta in un’opera che purtroppo indulge troppo spesso a topoi prevedibili e stereotipi rimarcati fino all’eccesso, ed è qui che si consuma la principale differenza rispetto al tenore generale del prototipo a cui Sorrentino si rifà, La Dolce Vita. Lì tutti i personaggi erano dolenti e trattenuti, il dramma palpitava sotto le situazioni; persino le espressioni del viso del protagonista Marcello erano controllate. Qui, al contrario, Jep Gambardella trasuda e ostenta amarezza anche verbalmente in troppi momenti. La parte del cardinale è in La Grande Bellezza l’opposto della figura di Ramona: trita e ritrita.
   Banalità sconfortanti, didascalismo e poi pezzi di magnificenza. Ed eccola, la grande bellezza del film: il sollevarsi in volo verso i cieli di Roma dei fenicotteri ripreso di spalle alla "santa", il pianosequenza della bambina nascosta sotto la cripta, la tirata all'intellettualoide che riprende La Terrazza di Ettore Scola, lo sfottò nei confronti dell’artista che si nutre di “vibrazioni”… Tutti “sparuti scampoli di bellezza” di cinema “immersi nel chiacchiericcio della vita mondana”, per dirla alla Gambardella. Elementi discordanti che convivono in un film non indimenticabile, frammentato, ma che ogni vero cinefilo e/o amante della città eterna deve guardare. Persino lui, il protagonista ottimamente interpretato da Toni Servillo, esprime la doppia anima del film: quella nobile (il disarmante sarcasmo napoletano del Jep “in società”) e quella pretenziosa (la già citata sottolineatura del disagio e il tono declamatorio delle frasi fuoricampo). Latita nella pellicola non tanto la bellezza quanto la Meraviglia che La Dolce Vita, film rispetto al quale non è lecito pretendere di non fare confronti, faceva esplodere in mezzo alle sue situazioni. Come spirito generale, qui siamo più dalle parti di Grand Canyon e Magnolia.
   Sorrentino, come sempre, arriva al contenuto quando fa parlare le immagini. Non è poco, e forse non è abbastanza. Un film che sarebbe stato più sincero senza le influenze felliniane (la camminata nei corridoi dei palazzi nobiliari è tratto proprio da La Dolce Vita, i pruriginosi ricordi infantili da 8 ½, Serena Grandi si mostra come in uno dei manifesti di Roma, l’accompagnatore della “santa” pare sfacciatamente uscito da Amarcord mentre la “santa” sembra la versione nobile della strega bambina di Giulietta Degli Spiriti) ma che non lascia indifferenti, e che deve sedimentare nella memoria per poter essere giudicato in modo esaustivo. La seconda parte è più altisonante ma anche più debole della prima, che invece pecca più che altro di una eccessiva, per quanto drammaturgicamente comprensibile, introduzione discotecara e trash.
   Forse stona il contesto sociale: La Dolce Vita raccontava un’annoiata vita mondana perfettamente inquadrata in un luogo, la Hollywood sul Tevere, e in un momento storico, il boom economico, in cui tutto quello che si rappresentava era credibile e visto come un fenomeno decadente ma non morente, tutt’altro: era una prepotente spinta verso un godimento vissuto senza complessi, in cui l’unico neo era la perdita di valori. Ora, in un paese in via di smantellamento come l’Italia di oggi, queste esplosioni appaiono perlopiù come un rantolo. Un rantolo di cui non si può fare una colpa a Sorrentino, il quale racconta una società comunque esistente. Ma che la maggior parte delle persone vive come qualcosa di staccato, di ancora più inventato della vita notturna della Via Veneto felliniana.
La mancanza di allusività e di sfumature ambigue che tanto abbiamo contestate a un film così drammaticamente esplicito come questo, trova un’eccezione in una singola scena che offre lo spunto a una doppia interpretazione di non trascurabile valore: la scena del funerale; Gambardella si prepara a quel che considera l’evento mondano per eccellenza snocciolando a Ramona i suoi imprescindibili codici di comportamento, tra i quali spicca la regola tassativa di NON piangere per non rubare la scena ai familiari del defunto. Ma qualcosa va storto: durante il trasporto della bara l’uomo si abbandona ad un pianto dirotto che coglie di sorpresa gli astanti. Cos’è stato a fare trasgredire al consumato re dei mondani una delle sue regole più ferree? Non la morte del ragazzo, probabilmente, dato che questi non era al centro della sua esistenza… Allora le ipotesi sono due: Gambardella è diventato così cinico da decidere di “rubare la scena” alla madre (Pamela Villoresi) del ragazzo, oppure l’occasione ha acceso la miccia per uno sfogo disperato e improvviso dovuto all’intera sua vacua esistenza e per troppo tempo represso. Come sempre in questi casi, è bello che la cosa resti inspiegata e, almeno per una volta, anche in quest’opera non sia indicata una direzione di pensiero del pubblico. 
Se è vero che lo stile rappresenta il contenuto, in fondo è giusto che l'Italia di oggi non sia stata rappresentata con una maggiore compattezza e armonia narrativa, perché avrebbe sconfessato la conclusione del protagonista che non era "mai riuscito a trovare la grande bellezza" in quarant’anni di vita mondana sul Tevere. Che sia voluta o no, l'imperfezione del racconto trasmette meglio di ogni altra cosa l'insolutezza.
Scordatevi La Dolce Vita e tuffatevi nel glamour provinciale della Roma bene degli anni 2000.
 
Giovanni Modica (maggio 2013)

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