Storia maledetta che più maledetta non si può: un ex
terrorista rosso decide di percorrere la strada della riabilitazione. Ma
paradossalmente, per poterlo fare deve compiere atti criminosi sempre maggiori.
La sua freddezza lo aiuterà a raggiungere l’obiettivo anche a scapito di
un’innocente: la sua anima diventa definitivamente sporca, la sua fedina penale torna immacolata...
Quando si dice un film che,
piaciuto o no, non si dimentica.
Ottimamente costruito, il
coraggioso e amarissimo Arrivederci amore, ciao del redivivo Michele
Soavi appartiene proprio a questa categoria di pellicole.
Il suo fascino sta soprattutto
nel fatto che da una parte - per un’ora e mezza circa - ci mostra una vicenda
accattivante per il grosso pubblico, piena di movimento, di colpi di scena e
sequenze da torrido noir in cui sembra di poter inquadrare un significato
preciso, e poi trasporta lo spettatore verso un finale tanto emotivamente
coinvolgente quanto brusco, sgradevolissimo non per le immagini ma per la
crudeltà manifestata del protagonista Giorgio (Alessio Boni), che arriva quasi
inaspettata. Lo spettatore viene spaesato e brutalizzato attraverso il terrore
della sua ultima vittima, con l’effetto - voluto - di rendere l’orrore
‘interiore’ del freddo assassino sconvolgente al punto giusto.
Certo, in questo modo ci sarà chi
sconsiglierà il film agli amici, ma certe caratterizzazioni fanno indubbiamente
bene al cinema, se non altro perché le cose rese in modo asettico non possono
mai sortire la reazione psicologica
giusta a certe situazioni.
Per ottenere la riabilitazione da
un crimine, l’ex terrorista Giorgio accetta tutti i compromessi che gli si
parano di fronte, omicidi compresi. Tornato in Italia dal suo rifugio in
Sudamerica proprio grazie all’assassinio a tradimento di un suo “alleato”,
accetta di mettersi in combutta con un vicequestore della Digos corrotto che lo
ricatta dapprima estorcendogli soffiate e poi coinvolgendolo in
organizzatissime rapine insieme ad altri galeotti da destinare poi alla morte.
Giorgio si serve della Giustizia e la Giustizia si serve di lui, consapevoli
entrambi di essere l’uno lo strumento dell’altro, senza ingannarsi.
Per rafforzare la sua posizione
di bravo ragazzo, Giorgio accetta il suggerimento di un faccendiere industriale del Nordest (Carlo Cecchi) di
trovarsi una ragazza da sposare in chiesa, cosa che piace molto ai giudici.
Filo conduttore nella vita di
Giorgio è il ricorrere casuale della canzone “Insieme a te non ci sto più” di
Caterina Caselli, brano legato al suo primo omicidio compiuto “per convenienza”
ed amato dalla sua neo-moglie, la quale diventa via via un peso sempre maggiore
perché non accetta menzogne e tradimenti rischiando di mandare in tilt la sua
immagine minuziosamente ricostruita.
Stanco dei continui e sanguinosi
ricatti di Anedda (questo il nome del vicequestore impersonato da Michele
Placido, qui troppo gigione), Giorgio decide di eliminare il problema alla fonte.
Tanto ormai la sua esperienza nello smaltimento dei cadaveri e nel cancellare
le tracce è a prova di bomba.
Ora non gli resta che eliminare
il problema minore, quello della moglie, e decide di farlo in un modo talmente
lento (un avvelenamento tramite aspirina, visto che lei ne è allergica), da
farci dimenticare il parziale riscatto
della sua onestà, raccontato in un flashback a metà film, che ci mostra come il
primo omicidio da lui commesso fu in realtà involontario: la sua bomba non
prevedeva la morte di un guardiano.
Illusi di potere parteggiare per
Giorgio, gli spettatori vengono rimessi quindi di fronte ad un uomo che ha il
cattivo gusto di coprire le grida della sua donna moribonda con le note della
sua canzone preferita e della quale fa scrivere il titolo sulla corona funebre
perché, dice: “non mi veniva in mente nient’altro..”.
Pur non togliendo niente al bravo
Boni, forse la recitazione migliore è proprio quella di Alina Nedelea
(l’interprete della moglie) che porta a termine in modo perfetto il ruolo più
difficile del film.
Buona anche se scontata la
selezione musicale. È ormai evidente, dopo La stanza del figlio e Manuale
d’amore, che la canzone “Insieme a te non ci sto più” piace molto all’attuale
generazione di cineasti, forse in virtù del fatto che uscì nel 1968.
Per quanto riguarda l’idea di
legare una struggente canzone d’amore a scene di estrema sofferenza fisica,
direi che anche in questo caso la lezione fulciana sull’effetto dirompente dei
contrasti si è fatta sentire.
Soavi ha delle trovate molto
interessanti: la disturbante e lunghissima scena degli ultimi momenti di vita
della moglie si conclude con una visione distorta di Giorgio che, a causa
dell’avvelenamento, viene percepito da lei come un essere gigantesco quando le
si para davanti per impedirle di raggiungere la porta.
Ma geniali anche alcune idee
buffe nelle prime scene, come quella di un cocainomane che tira la striscia
bianca dall’incavo della schiena di una donna di colore nel locale notturno
‘controllato’ inizialmente da Giorgio.
Dal punto di vista strettamente
tecnico, una menzione particolare merita il montaggio di Anna Napoli, a cui si
deve il ritmo senza sosta del film.
Notevole è la scena di Alina Nedelea
che si muove lentamente in mezzo ai propri capelli svolazzanti in preda agli
effetti del farmaco, dichiarata citazione dell’analoga scena con Daria Nicolodi
in Schock di Mario Bava del 1977.
Dunque l’ex regista di genere e
già pupillo di Dario Argento si è definitivamente dato al noir politico e
sociale, mantenendo però una vena visiva molto più spiccata rispetto agli
ultimi lavori del suo ex maestro. Personalmente avevo sempre preso sottogamba
Soavi considerandolo forse troppo stile anni ’80, con le sue trame bizzarre e
traballanti e i suoi sfondi perennemente bui e notturni. Ma Soavi il trash di Deliria
e del cult internazionale Dellamorte Dellamore – film che comunque aveva
ottime trovate visive – se l’era già lasciato alle spalle all’epoca del
magnifico film-tv Uno Bianca, con cui aveva mirabilmente piegato la nota
squallida vicenda di cronaca nera in un sorprendente film d’azione al
fulmicotone. Per me fu quello il momento del suo riscatto, nonostante le
ingiustificate proteste che accompagnarono il film.
Abbiamo visto che il nuovo film
ha avuto buona accoglienza dalla critica ufficiale, eppure alcuni giornalisti
hanno sottolineato come fatto negativo che questo film contenesse meno politica
del romanzo dell’ex terrorista Massimo Carlotto da cui è stato tratto.
Non ho letto il romanzo, ma se si
tratta di minore “ideologia” (quella ambigua, che vuol mostrare come siano più
corrotti gli organi dello Stato rispetto agli idealisti rivoluzionari che
sbagliavano solo il metodo) è un fatto molto positivo. Messaggi di quel tipo,
fortemente discutibili, li abbiamo già visti in film come il celebre Indagine
su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che non ho amato anche per i
toni caricaturali e gridati con cui erano stati trattati i personaggi.
Se invece per minore
politicizzazione si è inteso che la pellicola non ha un significato sociale
preciso, allora questi giornalisti non hanno visto il film con la giusta
attenzione. È evidente che il messaggio di Arrivederci amore, ciao si
può sintetizzare, banalizzandolo, con il motto “ruba poco e sarai punito, ruba
molto e sarai premiato”. D’accordo, non è la scoperta dell’America. D’accordo,
è un problema vecchio come il mondo ed è tristemente connaturato al genere
umano. Ma qui si tratta di meccanismi legati agli organi dello Stato e alle
famose regole per la ‘riabilitazione’ del condannato, rappresentate come
utopistiche. Quindi certi contesti cambiano il significato e lo muovono
decisamente in senso spiccatamente critico e sociale.
Qui il vicequestore impersonato
da Placido è sì una carogna, ma l’ex rivoluzionario travolto dagli eventi
negativi creatigli intorno dall’uomo di legge non viene tratteggiato come un
eroe negativo o un disperato romantico che voleva cambiare il mondo con metodi
sbagliati, ma come un individuo bieco e squallido, un freddo calcolatore né più
né meno come il poliziotto corrotto, e poco cambia se uno è sempre stato dalla
parte della legge in modo falso e l’altro è rimasto a suo modo coerente: il
personaggio di Boni peggiora proprio dove il suo “sfruttatore” non è più in
scena, cioè quando decide di uccidere sua moglie inutilmente ed in modo
agghiacciante.
Il film sembra dunque voler dire
tra le righe che la riabilitazione non può esistere, e così si assiste ad una
progressiva e mostruosa discesa agli inferi di due personaggi aridi che
trascinano con sé nel vortice tutto ciò che toccano.
D’altra parte a Soavi ha sempre
interessato raccontare storie, non fare cinema ‘di parte’.
Il cinema italiano sta lentamente
attraversando una fase di recupero dal periodo minimalista e ‘morettiano’ che
l’aveva affossato soprattutto negli anni ’90, e lo sta facendo partendo proprio
dal tema che aveva più trascurato in passato: il fosco periodo degli anni di
piombo e le sue conseguenze (La meglio gioventù, Buongiorno notte,
in parte Romanzo criminale…), forse con l’unica pecca di non raccontare
a sufficienza la povertà culturale che c’era dietro quella sbornia. Ma i
risultati sono ottimi, ed ora abbiamo una nuova generazione di attori e registi
con cui identificarci come nei gloriosi tempi andati. Film quasi sperimentali
come Cuore sacro e Arrivederci amore, ciao non assecondano
più il pubblico ma lo indirizzano temerariamente ad aperture diverse, come una
volta facevano opere allora ritenute indigeste dai primi spettatori come Roma
città aperta e Ladri di biciclette.
Manca ancora una nuova produzione
media che sia decente, ma speriamo che i tagli alla Cultura non pregiudichino
troppo questa fase di ‘rinascimento’.
Il film, tratto dall’omonimo
romanzo di Massimo Carlotto, è stato coprodotto da Conchita Airoldi, ex attrice
- col nome di Cristina Airoldi - del cinema di genere italiano (la ricordiamo
soprattutto nelle pellicole gialle di Sergio Martino Lo strano vizio della signora Wardh e I corpi presentano tracce di Violenza carnale, rispettivamente del
1969 e del 1973) e ormai da molti anni produttrice.
Giovanni Modica
(recensione
fatta nel febbraio del 2006)
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