sabato 9 marzo 2013

ARRIVEDERCI AMORE, CIAO di Michele Soavi

Storia maledetta che più maledetta non si può: un ex terrorista rosso decide di percorrere la strada della riabilitazione. Ma paradossalmente, per poterlo fare deve compiere atti criminosi sempre maggiori. La sua freddezza lo aiuterà a raggiungere l’obiettivo anche a scapito di un’innocente: la sua anima diventa definitivamente sporca,  la sua fedina penale torna immacolata...
 
Quando si dice un film che, piaciuto o no, non si dimentica.
Ottimamente costruito, il coraggioso e amarissimo Arrivederci amore, ciao del redivivo Michele Soavi appartiene proprio a questa categoria di pellicole.
Il suo fascino sta soprattutto nel fatto che da una parte - per un’ora e mezza circa - ci mostra una vicenda accattivante per il grosso pubblico, piena di movimento, di colpi di scena e sequenze da torrido noir in cui sembra di poter inquadrare un significato preciso, e poi trasporta lo spettatore verso un finale tanto emotivamente coinvolgente quanto brusco, sgradevolissimo non per le immagini ma per la crudeltà manifestata del protagonista Giorgio (Alessio Boni), che arriva quasi inaspettata. Lo spettatore viene spaesato e brutalizzato attraverso il terrore della sua ultima vittima, con l’effetto - voluto - di rendere l’orrore ‘interiore’ del freddo assassino sconvolgente al punto giusto.
Certo, in questo modo ci sarà chi sconsiglierà il film agli amici, ma certe caratterizzazioni fanno indubbiamente bene al cinema, se non altro perché le cose rese in modo asettico non possono mai  sortire la reazione psicologica giusta a certe situazioni.
 
Per ottenere la riabilitazione da un crimine, l’ex terrorista Giorgio accetta tutti i compromessi che gli si parano di fronte, omicidi compresi. Tornato in Italia dal suo rifugio in Sudamerica proprio grazie all’assassinio a tradimento di un suo “alleato”, accetta di mettersi in combutta con un vicequestore della Digos corrotto che lo ricatta dapprima estorcendogli soffiate e poi coinvolgendolo in organizzatissime rapine insieme ad altri galeotti da destinare poi alla morte. Giorgio si serve della Giustizia e la Giustizia si serve di lui, consapevoli entrambi di essere l’uno lo strumento dell’altro, senza ingannarsi.
Per rafforzare la sua posizione di bravo ragazzo, Giorgio accetta il suggerimento di un faccendiere  industriale del Nordest (Carlo Cecchi) di trovarsi una ragazza da sposare in chiesa, cosa che piace molto ai giudici.
Filo conduttore nella vita di Giorgio è il ricorrere casuale della canzone “Insieme a te non ci sto più” di Caterina Caselli, brano legato al suo primo omicidio compiuto “per convenienza” ed amato dalla sua neo-moglie, la quale diventa via via un peso sempre maggiore perché non accetta menzogne e tradimenti rischiando di mandare in tilt la sua immagine minuziosamente ricostruita.
Stanco dei continui e sanguinosi ricatti di Anedda (questo il nome del vicequestore impersonato da Michele Placido, qui troppo gigione), Giorgio decide di eliminare il problema alla fonte. Tanto ormai la sua esperienza nello smaltimento dei cadaveri e nel cancellare le tracce è a prova di bomba.
Ora non gli resta che eliminare il problema minore, quello della moglie, e decide di farlo in un modo talmente lento (un avvelenamento tramite aspirina, visto che lei ne è allergica), da farci  dimenticare il parziale riscatto della sua onestà, raccontato in un flashback a metà film, che ci mostra come il primo omicidio da lui commesso fu in realtà involontario: la sua bomba non prevedeva la morte di un guardiano.
Illusi di potere parteggiare per Giorgio, gli spettatori vengono rimessi quindi di fronte ad un uomo che ha il cattivo gusto di coprire le grida della sua donna moribonda con le note della sua canzone preferita e della quale fa scrivere il titolo sulla corona funebre perché, dice: “non mi veniva in mente nient’altro..”.
 
Pur non togliendo niente al bravo Boni, forse la recitazione migliore è proprio quella di Alina Nedelea (l’interprete della moglie) che porta a termine in modo perfetto il ruolo più difficile del film.
Buona anche se scontata la selezione musicale. È ormai evidente, dopo La stanza del figlio e Manuale d’amore, che la canzone “Insieme a te non ci sto più” piace molto all’attuale generazione di cineasti, forse in virtù del fatto che uscì nel 1968.
Per quanto riguarda l’idea di legare una struggente canzone d’amore a scene di estrema sofferenza fisica, direi che anche in questo caso la lezione fulciana sull’effetto dirompente dei contrasti si è fatta sentire.
Soavi ha delle trovate molto interessanti: la disturbante e lunghissima scena degli ultimi momenti di vita della moglie si conclude con una visione distorta di Giorgio che, a causa dell’avvelenamento, viene percepito da lei come un essere gigantesco quando le si para davanti per impedirle di raggiungere la porta.
Ma geniali anche alcune idee buffe nelle prime scene, come quella di un cocainomane che tira la striscia bianca dall’incavo della schiena di una donna di colore nel locale notturno ‘controllato’ inizialmente da Giorgio.
Dal punto di vista strettamente tecnico, una menzione particolare merita il montaggio di Anna Napoli, a cui si deve il ritmo senza sosta del film.
 
Notevole è la scena di Alina Nedelea che si muove lentamente in mezzo ai propri capelli svolazzanti in preda agli effetti del farmaco, dichiarata citazione dell’analoga scena con Daria Nicolodi in Schock di Mario Bava del 1977.
 
Dunque l’ex regista di genere e già pupillo di Dario Argento si è definitivamente dato al noir politico e sociale, mantenendo però una vena visiva molto più spiccata rispetto agli ultimi lavori del suo ex maestro. Personalmente avevo sempre preso sottogamba Soavi considerandolo forse troppo stile anni ’80, con le sue trame bizzarre e traballanti e i suoi sfondi perennemente bui e notturni. Ma Soavi il trash di Deliria e del cult internazionale Dellamorte Dellamore – film che comunque aveva ottime trovate visive – se l’era già lasciato alle spalle all’epoca del magnifico film-tv Uno Bianca, con cui aveva mirabilmente piegato la nota squallida vicenda di cronaca nera in un sorprendente film d’azione al fulmicotone. Per me fu quello il momento del suo riscatto, nonostante le ingiustificate proteste che accompagnarono il film.
Abbiamo visto che il nuovo film ha avuto buona accoglienza dalla critica ufficiale, eppure alcuni giornalisti hanno sottolineato come fatto negativo che questo film contenesse meno politica del romanzo dell’ex terrorista Massimo Carlotto da cui è stato tratto.
Non ho letto il romanzo, ma se si tratta di minore “ideologia” (quella ambigua, che vuol mostrare come siano più corrotti gli organi dello Stato rispetto agli idealisti rivoluzionari che sbagliavano solo il metodo) è un fatto molto positivo. Messaggi di quel tipo, fortemente discutibili, li abbiamo già visti in film come il celebre Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che non ho amato anche per i toni caricaturali e gridati con cui erano stati trattati i personaggi.
Se invece per minore politicizzazione si è inteso che la pellicola non ha un significato sociale preciso, allora questi giornalisti non hanno visto il film con la giusta attenzione. È evidente che il messaggio di Arrivederci amore, ciao si può sintetizzare, banalizzandolo, con il motto “ruba poco e sarai punito, ruba molto e sarai premiato”. D’accordo, non è la scoperta dell’America. D’accordo, è un problema vecchio come il mondo ed è tristemente connaturato al genere umano. Ma qui si tratta di meccanismi legati agli organi dello Stato e alle famose regole per la ‘riabilitazione’ del condannato, rappresentate come utopistiche. Quindi certi contesti cambiano il significato e lo muovono decisamente in senso spiccatamente critico e sociale.
Qui il vicequestore impersonato da Placido è sì una carogna, ma l’ex rivoluzionario travolto dagli eventi negativi creatigli intorno dall’uomo di legge non viene tratteggiato come un eroe negativo o un disperato romantico che voleva cambiare il mondo con metodi sbagliati, ma come un individuo bieco e squallido, un freddo calcolatore né più né meno come il poliziotto corrotto, e poco cambia se uno è sempre stato dalla parte della legge in modo falso e l’altro è rimasto a suo modo coerente: il personaggio di Boni peggiora proprio dove il suo “sfruttatore” non è più in scena, cioè quando decide di uccidere sua moglie inutilmente ed in modo agghiacciante.
Il film sembra dunque voler dire tra le righe che la riabilitazione non può esistere, e così si assiste ad una progressiva e mostruosa discesa agli inferi di due personaggi aridi che trascinano con sé nel vortice tutto ciò che toccano.
D’altra parte a Soavi ha sempre interessato raccontare storie, non fare cinema ‘di parte’.
 
Il cinema italiano sta lentamente attraversando una fase di recupero dal periodo minimalista e ‘morettiano’ che l’aveva affossato soprattutto negli anni ’90, e lo sta facendo partendo proprio dal tema che aveva più trascurato in passato: il fosco periodo degli anni di piombo e le sue conseguenze (La meglio gioventù, Buongiorno notte, in parte Romanzo criminale…), forse con l’unica pecca di non raccontare a sufficienza la povertà culturale che c’era dietro quella sbornia. Ma i risultati sono ottimi, ed ora abbiamo una nuova generazione di attori e registi con cui identificarci come nei gloriosi tempi andati. Film quasi sperimentali come Cuore sacro e Arrivederci amore, ciao non assecondano più il pubblico ma lo indirizzano temerariamente ad aperture diverse, come una volta facevano opere allora ritenute indigeste dai primi spettatori come Roma città aperta e Ladri di biciclette.
Manca ancora una nuova produzione media che sia decente, ma speriamo che i tagli alla Cultura non pregiudichino troppo questa fase di ‘rinascimento’.
 
Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Carlotto, è stato coprodotto da Conchita Airoldi, ex attrice - col nome di Cristina Airoldi - del cinema di genere italiano (la ricordiamo soprattutto nelle pellicole gialle di Sergio Martino Lo strano vizio della signora Wardh e I corpi presentano tracce di Violenza carnale, rispettivamente del 1969 e del 1973) e ormai da molti anni produttrice.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2006)

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