venerdì 8 marzo 2013

MILLION DOLLAR BABY di Clint Eastwood

Nella maggiore parte dei casi, gli artisti con gli anni subiscono un calo di ispirazione (emblematico è il caso di Fellini); in altri succede il contrario. Gabriele Salvatores e Clint Eastwood sono due esempi della seconda categoria. Con la differenza che mentre di Salvatores aspettiamo ancora il film della conferma dopo Io non ho paura, Eastwood è già al suo secondo lavoro ‘adulto’ da regista, dopo l’elogiatissimo Mystic river. Non che i suoi film di prima fossero male, ma cose come Un mondo perfetto o Fino a prova contraria non erano altro che dignitosi prodotti medi.
Ora, il suo “Million dollar baby” dimostra  che un anno fa non si trattava di un fuoco di paglia. La partecipazione e la sensibilità dimostrata nel penultimo film è sottolineata in questa novità, con una storia completamente diversa.
Può essere difficile dire qualcosa in più rispetto agli altri su un film che ha appena vinto quattro Oscar, ma qualche considerazione personale va fatta comunque: il calibro dell’opera è tale che c’è spazio per scrivere tante di quelle cose da non correre il rischio di risultare scontati.
La prima cosa che mi viene in mente è un parallelismo che, nonostante le apparenze, non mi sembra così scontato: Sergio Leone, il ‘creatore’ di Eastwood, 40 anni fa reinventò un genere: il western. Oggi il suo attore-feticcio, dopo anni di convenzionalità, reinventa i generi in ogni singolo film, come se avesse preso la rincorsa per decenni. Il noir in Mystic river e lo sport pugilistico in Million dollar baby. Unici tratti in comune tra i due film sono uno scarso coinvolgimento ad inizio di narrazione ed un drammatico senso del passare del tempo.
Probabilmente l’Eastwood regista non è nato come talento naturale, e le sue riuscite di oggi si devono più alla riflessività e al consumato mestiere che non alla genialità. Ma oggi è uno dei più sobri e meno pretenziosi registi americani, e tanto basta.
Per quanto il paragone sia tuttora prematuro, forse l’attore-regista di oggi si potrebbe accostare ancor più a Kubrick che a Leone, data la sua voglia di cambiare genere ogni volta. Con più speranza del primo, meno giocosità del secondo e – rispetto ad entrambi – molto meno nichilismo.
Le storie sono forse non nuovissime, ma è il come sono fatte a conferire loro densità e spessore. Nessun volo di macchina da presa, è vero, né virtuosismi visivi: parlano i dialoghi e le sfumature all’interno di situazioni molto abusate dal cinema.
Ci sono infatti prototipi umani trattati con un metro diverso: Clint, caratterialmente, è diventato l’anti-Callaghan per eccellenza, e rappresenta una figura di allenatore che è l’opposto di quella che ci siamo abituati a vedere dal Meredith Burgess di Rocky in poi. Se fino a ieri questi personaggi erano adrenalinici, testosteronici fino al ridicolo, ed inclini a istillare rabbia ai loro campioni con grida e turpiloquio, oggi abbiamo un esempio della categoria totalmente nuovo: sia Frankie (Eastwood) che Eddie (Morgan Freeman) – altro allenatore nel film – sono dei gentiluomini pazienti e premurosi. Anche teneri, e non necessariamente perché hanno a che fare con un pugile donna; li vediamo così anche con un altro giovane personaggio che in Rocky sarebbe stato buttato fuori a calci dalla palestra. 
Eastwood, almeno nell’indovinato doppiaggio italiano, ha una voce pacata, quasi flebile. Freeman è Freeman, la faccia eternamente bonaria di Hollywood che incarna se stessa con tutto il suo approccio filosofico alla vita.
Nel film la violenza della boxe è descritta solo con le parole fuoricampo, e non con immagini forti: “Alla gente piace la violenza”, dice Morgan Freeman: “Quelli che si voltano dopo un incidente stradale sono gli stessi che dicono di amare la boxe”. E ancora: “Nella boxe tutto è innaturale: ti ritrai per assestare un colpo, mentre l’istinto ti direbbe il contrario”.
 
A un certo punto la storia cambia faccia: quello che era ormai per tutti un discreto film sportivo, con la solita parabola del riscatto dalla miseria in chiave femminile, diventa qualcos’altro. L’allenatore, per evitare che la sua ‘pupilla’ Meggie (Hilary Swank) si trovi a non avere più avversarie desiderose di incontrarla (lei mette tutte KO al primo round), la passa di livello. Le cose vanno bene, soprattutto in Europa. Finché lei non si trova davanti il ‘mostro’ di turno: una potenziale assassina che lotta senza regole per il semplice fatto che le basta avere una nutrita tifoseria dietro di sé. Si tratta di una tedesca della ex Berlino est (e di dove, sennò?). Ivan Drago era russo. Ma i tempi cambiano, e i fremiti neonazisti di certe zone modificano l’immaginario anche cinematografico. Contesti malsani generano amoralità, e attualmente i giornali riportano atti violenti da luoghi, per così dire, ‘nuovi’.
Indovinata l’idea di riprendere questa combattente in modo di farla apparire con una falsa fisionomia maschile prima dell’incontro, per creare nello spettatore un senso di astrazione dalla logica e conseguente aumento di palpitazione. Trovata utile anche per suggerire simbolicamente la totale anarchia che attraversa questo sport.
Dopo una lotta serrata, la nostra è a un passo dalla vittoria. Ma una sua distrazione le costa la spina dorsale. È la rovina. La sofferenza morale del passato ora ritorna e collima con quella fisica. Inaspettatamente, si fa vivo il tema dell’eutanasia e dei dilemmi morali che esso comporta. Un altro film. Avevamo già visto di recente questo tema trattato con intelligenza e una certa, voluta, leggerezza in Le invasioni barbariche di Denys Arcand (altro talento non naturale ma cresciuto col tempo). Ma gli statunitensi, si sa, non hanno la laicità dei francocanadesi, e il tutto viene vissuto come dilemma esattamente come sarebbe in Italia. Naturalmente non svelerò la decisione che verrà presa nei confronti dell’ormai stanca ragazza.
Hilary Swank è considerata l’attrice del momento, ma secondo il mio personalissimo giudizio sono proprio i due uomini - i due allenatori - quelli che in questo film fanno la differenza.
 
Mi soffermerò, come ultima considerazione sulla trama, su quello che diventa il terzo argomento del film: a sorpresa, si affaccia nella storia ciò che vi era già presente ma abilmente nascosto: l’amore senile. Un uomo d’età non palesa certi sentimenti se non in circostanze particolari, preferendo conservare nel silenzio qualcosa che necessariamente verrebbe giudicato fuoriluogo e ridicolo. La rivelazione è racchiusa in una sola, intensa frase appena sussurrata, e tutto un inatteso mondo interiore appare e scompare in un lampo. Forse proprio per questo risulta essere la sensazione più incisiva e coinvolgente delle due ore di proiezione, destinata a restare impressa a fuoco nella memoria. Quello che mi ha più colpito è che, non fosse accaduto il dramma, questo sentimento cresciuto e consapevolmente nascosto negli anni sarebbe stato destinato a non esprimersi per sempre, conscio dell’incomprensione a cui sarebbe andato incontro.
Quanti uomini anziani nella realtà vivranno in segreto certe ‘patetiche’ emozioni?
Lui studiava il gaelico, e sulla vestaglia della sua pugile aveva fatto scrivere poche parole nella suddetta lingua. Parole destinate a diventare un incomprensibile motto per tutta la tifoseria della ragazza. Si era sempre rifiutato di tradurle anche per lei. Fino alle ultime scene.
Fra gli elementi per così dire secondari, rilevante è la rappresentazione della rozza, tipica famiglia del retroterra americano e della mentalità provinciale e restrittiva che la caratterizza. Si tratta della famiglia di Meggie, che ostenta un atteggiamento irridente e ostile verso una figlia ‘del cui lavoro tutti in paese ridono’, e che cercherà di approfittare biecamente della condizione tragica in cui lei verserà.
 
Infine una considerazione a latere su una frase che viene detta ad inizio film alla Swank e che, involontariamente, descrive un significativo cambiamento nella società di oggi. “A 31 anni sei troppo vecchia per la boxe”, le dice Eastwood per scoraggiarla: “…e nessuno vorrà saperne di te”.
Indubbiamente negli sport è sempre stato così, se non altro per i limiti prettamente biologici che cominciano a manifestarsi nell’organismo umano da una certa età in poi. Il ridicolo è che io mi sono sentito dire, pochi giorni fa, che 31 anni è ritenuta un’età troppo avanzata per le assunzioni nelle aziende, anche per quanto riguarda semplici mansioni impiegatizie. Non so se anche fuori dai nostri confini sia così, ma è chiaro ormai che coltivare sogni di gloria o puntare sulla normalità, al giorno d’oggi comporta lo stesso tipo di difficoltà per motivi di pura sclerotizzazione del mercato-lavoro. Aspiranti pugili, non puntate mai sul lavoro sicuro! 
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2005)

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