Nella maggiore parte dei casi,
gli artisti con gli anni subiscono un calo di ispirazione (emblematico è il
caso di Fellini); in altri succede il contrario. Gabriele Salvatores e Clint
Eastwood sono due esempi della seconda categoria. Con la differenza che mentre
di Salvatores aspettiamo ancora il film della conferma dopo Io non ho paura,
Eastwood è già al suo secondo lavoro ‘adulto’ da regista, dopo l’elogiatissimo Mystic
river. Non che i suoi film di prima fossero male, ma cose come Un
mondo perfetto o Fino a prova contraria non erano altro che
dignitosi prodotti medi.
Ora, il suo “Million dollar
baby” dimostra che un anno fa non si
trattava di un fuoco di paglia. La partecipazione e la sensibilità dimostrata nel
penultimo film è sottolineata in questa novità, con una storia completamente
diversa.
Può essere difficile dire
qualcosa in più rispetto agli altri su un film che ha appena vinto quattro
Oscar, ma qualche considerazione personale va fatta comunque: il calibro
dell’opera è tale che c’è spazio per scrivere tante di quelle cose da non
correre il rischio di risultare scontati.
La prima cosa che mi viene in
mente è un parallelismo che, nonostante le apparenze, non mi sembra così
scontato: Sergio Leone, il ‘creatore’ di Eastwood, 40 anni fa reinventò un
genere: il western. Oggi il suo attore-feticcio, dopo anni di convenzionalità,
reinventa i generi in ogni singolo film, come se avesse preso la rincorsa per
decenni. Il noir in Mystic river e lo sport pugilistico in Million
dollar baby. Unici tratti in comune tra i due film sono uno scarso
coinvolgimento ad inizio di narrazione ed un drammatico senso del passare del
tempo.
Probabilmente l’Eastwood regista
non è nato come talento naturale, e le sue riuscite di oggi si devono più alla
riflessività e al consumato mestiere che non alla genialità. Ma oggi è uno dei
più sobri e meno pretenziosi registi americani, e tanto basta.
Per quanto il paragone sia
tuttora prematuro, forse l’attore-regista di oggi si potrebbe accostare ancor
più a Kubrick che a Leone, data la sua voglia di cambiare genere ogni volta.
Con più speranza del primo, meno giocosità del secondo e – rispetto ad entrambi
– molto meno nichilismo.
Le storie sono forse non
nuovissime, ma è il come sono fatte a conferire loro densità e spessore. Nessun
volo di macchina da presa, è vero, né virtuosismi visivi: parlano i dialoghi e
le sfumature all’interno di situazioni molto abusate dal cinema.
Ci sono infatti prototipi umani
trattati con un metro diverso: Clint, caratterialmente, è diventato
l’anti-Callaghan per eccellenza, e rappresenta una figura di allenatore che è
l’opposto di quella che ci siamo abituati a vedere dal Meredith Burgess di Rocky
in poi. Se fino a ieri questi personaggi erano adrenalinici, testosteronici
fino al ridicolo, ed inclini a istillare rabbia ai loro campioni con grida e
turpiloquio, oggi abbiamo un esempio della categoria totalmente nuovo: sia
Frankie (Eastwood) che Eddie (Morgan Freeman) – altro allenatore nel film –
sono dei gentiluomini pazienti e premurosi. Anche teneri, e non necessariamente
perché hanno a che fare con un pugile donna; li vediamo così anche con un altro
giovane personaggio che in Rocky sarebbe stato buttato fuori a calci
dalla palestra.
Eastwood, almeno nell’indovinato
doppiaggio italiano, ha una voce pacata, quasi flebile. Freeman è Freeman, la
faccia eternamente bonaria di Hollywood che incarna se stessa con tutto il suo
approccio filosofico alla vita.
Nel film la violenza della boxe è
descritta solo con le parole fuoricampo, e non con immagini forti: “Alla gente
piace la violenza”, dice Morgan Freeman: “Quelli che si voltano dopo un
incidente stradale sono gli stessi che dicono di amare la boxe”. E ancora:
“Nella boxe tutto è innaturale: ti ritrai per assestare un colpo, mentre
l’istinto ti direbbe il contrario”.
A un certo punto la storia cambia
faccia: quello che era ormai per tutti un discreto film sportivo, con la solita
parabola del riscatto dalla miseria in chiave femminile, diventa qualcos’altro.
L’allenatore, per evitare che la sua ‘pupilla’ Meggie (Hilary Swank) si trovi a
non avere più avversarie desiderose di incontrarla (lei mette tutte KO al primo
round), la passa di livello. Le cose vanno bene, soprattutto in Europa. Finché
lei non si trova davanti il ‘mostro’ di turno: una potenziale assassina che
lotta senza regole per il semplice fatto che le basta avere una nutrita
tifoseria dietro di sé. Si tratta di una tedesca della ex Berlino est (e di
dove, sennò?). Ivan Drago era russo. Ma i tempi cambiano, e i fremiti
neonazisti di certe zone modificano l’immaginario anche cinematografico.
Contesti malsani generano amoralità, e attualmente i giornali riportano atti
violenti da luoghi, per così dire, ‘nuovi’.
Indovinata l’idea di riprendere
questa combattente in modo di farla apparire con una falsa fisionomia maschile
prima dell’incontro, per creare nello spettatore un senso di astrazione dalla
logica e conseguente aumento di palpitazione. Trovata utile anche per suggerire
simbolicamente la totale anarchia che attraversa questo sport.
Dopo una lotta serrata, la nostra
è a un passo dalla vittoria. Ma una sua distrazione le costa la spina dorsale.
È la rovina. La sofferenza morale del passato ora ritorna e collima con quella
fisica. Inaspettatamente, si fa vivo il tema dell’eutanasia e dei dilemmi
morali che esso comporta. Un altro film. Avevamo già visto di recente questo
tema trattato con intelligenza e una certa, voluta, leggerezza in Le
invasioni barbariche di Denys Arcand (altro talento non naturale ma cresciuto
col tempo). Ma gli statunitensi, si sa, non hanno la laicità dei
francocanadesi, e il tutto viene vissuto come dilemma esattamente come sarebbe
in Italia. Naturalmente non svelerò la decisione che verrà presa nei confronti
dell’ormai stanca ragazza.
Hilary Swank è considerata
l’attrice del momento, ma secondo il mio personalissimo giudizio sono proprio i
due uomini - i due allenatori - quelli che in questo film fanno la differenza.
Mi soffermerò, come ultima
considerazione sulla trama, su quello che diventa il terzo argomento del film:
a sorpresa, si affaccia nella storia ciò che vi era già presente ma abilmente
nascosto: l’amore senile. Un uomo d’età non palesa certi sentimenti se non in
circostanze particolari, preferendo conservare nel silenzio qualcosa che
necessariamente verrebbe giudicato fuoriluogo e ridicolo. La rivelazione è
racchiusa in una sola, intensa frase appena sussurrata, e tutto un inatteso
mondo interiore appare e scompare in un lampo. Forse proprio per questo risulta
essere la sensazione più incisiva e coinvolgente delle due ore di proiezione,
destinata a restare impressa a fuoco nella memoria. Quello che mi ha più
colpito è che, non fosse accaduto il dramma, questo sentimento cresciuto e
consapevolmente nascosto negli anni sarebbe stato destinato a non esprimersi
per sempre, conscio dell’incomprensione a cui sarebbe andato incontro.
Quanti uomini anziani nella
realtà vivranno in segreto certe ‘patetiche’ emozioni?
Lui studiava il gaelico, e sulla
vestaglia della sua pugile aveva fatto scrivere poche parole nella suddetta
lingua. Parole destinate a diventare un incomprensibile motto per tutta la
tifoseria della ragazza. Si era sempre rifiutato di tradurle anche per lei.
Fino alle ultime scene.
Fra gli elementi per così dire
secondari, rilevante è la rappresentazione della rozza, tipica famiglia del
retroterra americano e della mentalità provinciale e restrittiva che la
caratterizza. Si tratta della famiglia di Meggie, che ostenta un atteggiamento
irridente e ostile verso una figlia ‘del cui lavoro tutti in paese ridono’, e
che cercherà di approfittare biecamente della condizione tragica in cui lei
verserà.
Infine una considerazione a
latere su una frase che viene detta ad inizio film alla Swank e che,
involontariamente, descrive un significativo cambiamento nella società di oggi.
“A 31 anni sei troppo vecchia per la boxe”, le dice Eastwood per scoraggiarla:
“…e nessuno vorrà saperne di te”.
Indubbiamente negli sport è
sempre stato così, se non altro per i limiti prettamente biologici che
cominciano a manifestarsi nell’organismo umano da una certa età in poi. Il
ridicolo è che io mi sono sentito dire, pochi giorni fa, che 31 anni è ritenuta
un’età troppo avanzata per le assunzioni nelle aziende, anche per quanto
riguarda semplici mansioni impiegatizie. Non so se anche fuori dai nostri
confini sia così, ma è chiaro ormai che coltivare sogni di gloria o puntare
sulla normalità, al giorno d’oggi comporta lo stesso tipo di difficoltà per
motivi di pura sclerotizzazione del mercato-lavoro. Aspiranti pugili, non
puntate mai sul lavoro sicuro!
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2005)
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