venerdì 8 marzo 2013

UNA LUNGA DOMENICA DI PASSIONI di Jean-Pierre Jeunet

I commenti ai film vanno scritti non subito dopo averli visti né troppi giorni dopo. Perché non troppo tempo dopo è inutile spiegarlo. Perchè non subito lo si può immaginare ma vale la pena di spiegarlo: bisogna metabolizzare ciò che si vede, e solo dopo un paio di giorni circa si è in grado di capire veramente che cosa è rimasto di un’opera e come essa ha sedimentato nella memoria. Nel caso di “Una lunga domenica di passioni” di Jeunet resta l’idea di un film apprezzabile nel suo complesso ma incostante nello stile e a tratti macchinoso nella narrazione.
La protagonista Audrey Tatou è meno leziosa rispetto al suo fortunato ruolo di Amelie, ed offre la rappresentazione di un personaggio piacevole, tenace e dolce nello stesso tempo, di una pazienza quasi francescana. Praticamente il tipo di donna che ognuno vorrebbe incontrare sulla sua strada affettiva, almeno caratterialmente. La sua funzione è non arrendersi all’idea che il suo ragazzo sia morto in guerra (siamo nel primo conflitto mondiale) e indagare in tal senso a dispetto di tutte le apparenze. Dalla sua parte non ha neanche la sua famiglia che gestisce una fattoria, e chi decide di aiutarla (un barbuto Dussollier, versatile come sempre) lo fa senza darle la minima speranza.
Nella ricerca l’aiuta anche una contadina che ha il volto di Jodie Foster, che le  racconta anche una sua vicenda personale piuttosto divertente, su come lei, per potere avere un ennesimo figlio, viene spinta dal marito sterile ad avere un rapporto ‘esterno’ e su come questo l’abbia portata a ‘farsi prendere la mano’ dalla situazione. Seguendo le tracce a distanza di un’altra presunta “vedova” - una prostituita della Corsica - implacabile nei suoi propositi di vendetta e le indicazioni di una donna inglese incontrata per pura fatalità in un ristorante, la ragazza ricostruisce il suo puzzle, talmente intricato che avrebbe spazientito chiunque non credesse nei miracoli come lei.
Gli eventi e le rivelazioni sono così fitti e veloci che se uno spettatore volesse andare in toilette per un attimo rischierebbe di perdersi qualcosa di determinante e di smarrirsi in una trama che, per essere seguita senza fare fatica, avrebbe dovuto diluirsi in un film di quattro ore diviso in due parti.
Il mistero viene rivelato a piccole dosi come in un mystery in cui ogni testimone diretto dà una sua versione dei fatti in qualche modo limitata da condizioni prettamente fisiche come le trincee in cui tutti erano rinchiusi: chi può dire veramente se quel ragazzo visto in lontananza sia stato veramente polverizzato dall’aereo che lo sorvolava o se l’era cavata? E perché, se ancora vivo, era sparito nel nulla? Non potendo svelare il finale, mi limito a sottolineare il lirismo e la poesia dell’ultima scena senza descriverla, anche se a malincuore.
 
Questo film è da intendersi come ‘cinema’ nel senso più puro del termine, con tutte le implicazioni positive e negative che tale definizione comporta: una sontuosa messa in scena e un forte impatto visivo, originalità nella scelta della fotografia (come sempre nel regista francese, non certo un ‘minimalista’) tendente al giallo. Ma anche frasi stucchevoli (“aveva voglia di vivere: gliel’ho letto negli occhi”) e battute che non fanno un buon servizio a un film dallo spirito serio (i vari tormentoni come la filastrocca sui peti del cane ne sono un esempio). Per non parlare di forzature puramente spettacolari, come quella del marchingegno tanto complesso quanto superfluo utilizzato dalla prostituta corsa per vendicare il suo uomo, con una cintura meccanica collegata ad un grilletto, quando sarebbe bastata una pistola nascosta sotto le sue ampie vesti. Non era necessario anche per il semplice fatto che la sua vittima l’aveva incontrata in un tunnel, senza possibilità che qualcuno potesse testimoniare e farla perquisire. Fantasiosa ed efficace invece la trovata della sua ‘prima’ esecuzione ai danni di un generale grasso e inumano sparando allo specchio sopra letto a cui era legato causando una pioggia di schegge su di lui.
La sciocca ripicca di un soldato che si fa fucilare pur di avere la libertà di orinare in piedi è francamente irritante nella sua retorica dell’antiretorica; ma Jeunet, forse a causa dell’assonanza con “jouer” ama “giocare”, anche a costo di qualche schizofrenia stilistica.
Fra tanto spettacolo ‘precotto’ stile Jerry Bruckheimer, i momenti migliori sono quelli forse meno d’impatto ma più sinceri, ovvero le parentesi del ricordo e la romanticissima scena finale, che non hanno nessuna pretesa di innovazione ma risultano molto toccanti nella loro semplicità e nel loro topos, forse anche perché si legano bene alla già citata fotografia.
L’innovatore visivo Jean-Pierre Jeunet, nei contenuti è adatto alla tradizione.
Un lato davvero originale della narrazione è secondo me la scelta di mostrare spesso, accanto a costruzioni cronologicamente rispettate, prima la conseguenza poi la causa di certe situazioni, senza fornire a chi guarda alcuna possibilità di previsione riguardo ai tempi delle spiegazioni (nessuna delle quali raccontata ma tutte rigorosamente ‘girate’), puntando quindi tutto sull’effetto sorpresa. Mischiando le regole del montaggio, viene reso inaspettato ciò che in realtà sarebbe prevedibilissimo. 
Un tocco di genio da parte di un regista imperfetto del quale però non si può dire che non faccia ricerca estetica in modo sorprendente.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2005)

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