Finalmente, "La grande
bellezza". Forte di un pregiudizio maturato negli ultimi quindici anni,
non avrei scommesso una cicca sugli episodi con Sabrina Ferilli e con Carlo Verdone.
Eppure sono quelli i più riusciti di un film su cui, forte di un pregiudizio
opposto maturato negli ultimi dieci anni, avrei scommesso di più. Forse funzionano
perché sono loro Roma. Due personaggi che fanno tenerezza, senza lati oscuri e
che perlopiù subiscono le situazioni circostanti in modo diverso ma egualmente
sfumato sul piano recitativo: Ramona (Ferilli) rappresenta l’accettazione, il
commediografo (Verdone) è invece troppo sensibile e ambizioso per non continuare
a mettersi in gioco accusare il colpo tutte le volte. Loro sono gli unici
personaggi che rappresentano la sofferenza contenuta in un’opera che purtroppo
indulge troppo spesso a topoi
prevedibili e stereotipi rimarcati fino all’eccesso, ed è qui che si consuma la
principale differenza rispetto al tenore generale del prototipo a cui Sorrentino
si rifà, La Dolce Vita. Lì tutti i
personaggi erano dolenti e trattenuti, il dramma palpitava sotto le situazioni;
persino le espressioni del viso del protagonista Marcello erano controllate.
Qui, al contrario, Jep Gambardella trasuda e ostenta amarezza anche verbalmente
in troppi momenti. La parte del cardinale è in La Grande Bellezza l’opposto della figura di Ramona: trita e
ritrita.
Banalità sconfortanti, didascalismo e poi pezzi di magnificenza. Ed
eccola, la grande bellezza del film: il sollevarsi in volo verso i cieli di
Roma dei fenicotteri ripreso di spalle alla "santa", il pianosequenza
della bambina nascosta sotto la cripta, la tirata all'intellettualoide che
riprende La Terrazza di Ettore
Scola, lo sfottò nei confronti dell’artista che si nutre di “vibrazioni”… Tutti
“sparuti scampoli di bellezza” di
cinema “immersi nel chiacchiericcio della
vita mondana”, per dirla alla Gambardella. Elementi discordanti che convivono
in un film non indimenticabile, frammentato, ma che ogni vero cinefilo e/o
amante della città eterna deve guardare. Persino lui, il protagonista ottimamente
interpretato da Toni Servillo, esprime la doppia anima del film: quella nobile
(il disarmante sarcasmo napoletano del Jep “in società”) e quella pretenziosa
(la già citata sottolineatura del disagio e il tono declamatorio delle frasi
fuoricampo). Latita nella pellicola non tanto la bellezza quanto la Meraviglia
che La Dolce Vita, film rispetto al
quale non è lecito pretendere di non fare confronti, faceva esplodere in mezzo
alle sue situazioni. Come spirito generale, qui siamo più dalle parti di Grand Canyon e Magnolia.
Sorrentino, come sempre, arriva al contenuto quando fa parlare le
immagini. Non è poco, e forse non è abbastanza. Un film che sarebbe stato più
sincero senza le influenze felliniane (la camminata nei corridoi dei palazzi
nobiliari è tratto proprio da La Dolce Vita,
i pruriginosi ricordi infantili da 8 ½,
Serena Grandi si mostra come in uno dei manifesti di Roma, l’accompagnatore della “santa” pare sfacciatamente uscito da Amarcord mentre la “santa” sembra la
versione nobile della strega bambina di Giulietta
Degli Spiriti) ma che non lascia indifferenti, e che deve sedimentare nella
memoria per poter essere giudicato in modo esaustivo. La seconda parte è più
altisonante ma anche più debole della prima, che invece pecca più che altro di
una eccessiva, per quanto drammaturgicamente comprensibile, introduzione
discotecara e trash.
Forse stona il contesto sociale: La
Dolce Vita raccontava un’annoiata vita mondana perfettamente inquadrata in
un luogo, la Hollywood sul Tevere, e in un momento storico, il boom economico,
in cui tutto quello che si rappresentava era credibile e visto come un fenomeno
decadente ma non morente, tutt’altro: era una prepotente spinta verso un
godimento vissuto senza complessi, in cui l’unico neo era la perdita di valori.
Ora, in un paese in via di smantellamento come l’Italia di oggi, queste
esplosioni appaiono perlopiù come un rantolo. Un rantolo di cui non si può fare
una colpa a Sorrentino, il quale racconta una società comunque esistente. Ma
che la maggior parte delle persone vive come qualcosa di staccato, di ancora più
inventato della vita notturna della Via Veneto felliniana.
La mancanza di allusività e di sfumature
ambigue che tanto abbiamo contestate a un film così drammaticamente esplicito
come questo, trova un’eccezione in una singola scena che offre lo spunto a una
doppia interpretazione di non trascurabile valore: la scena del funerale;
Gambardella si prepara a quel che considera l’evento mondano per eccellenza
snocciolando a Ramona i suoi imprescindibili codici di comportamento, tra i
quali spicca la regola tassativa di NON piangere per non rubare la scena ai
familiari del defunto. Ma qualcosa va storto: durante il trasporto della bara
l’uomo si abbandona ad un pianto dirotto che coglie di sorpresa gli astanti.
Cos’è stato a fare trasgredire al consumato re dei mondani una delle sue regole
più ferree? Non la morte del ragazzo, probabilmente, dato che questi non era al
centro della sua esistenza… Allora le ipotesi sono due: Gambardella è diventato
così cinico da decidere di “rubare la scena” alla madre (Pamela Villoresi) del
ragazzo, oppure l’occasione ha acceso la miccia per uno sfogo disperato e
improvviso dovuto all’intera sua vacua esistenza e per troppo tempo represso. Come
sempre in questi casi, è bello che la cosa resti inspiegata e, almeno per una
volta, anche in quest’opera non sia indicata una direzione di pensiero del
pubblico.
Se è vero che lo stile rappresenta
il contenuto, in fondo è giusto che l'Italia di oggi non sia stata
rappresentata con una maggiore compattezza e armonia narrativa, perché avrebbe sconfessato
la conclusione del protagonista che non era "mai riuscito a trovare la grande bellezza" in quarant’anni di
vita mondana sul Tevere. Che sia voluta o no, l'imperfezione del racconto
trasmette meglio di ogni altra cosa l'insolutezza.
Scordatevi La Dolce Vita e
tuffatevi nel glamour provinciale della Roma bene degli anni 2000.
Giovanni Modica
(maggio 2013)