venerdì 8 marzo 2013

EROS di Michelangelo Antonioni, Steven Soderbergh, Wong Kar-Wai

Un passaggio di testimone. E’ così che io ho percepito il film EROS, frutto di un’operazione ambiziosa figlia di altri tempi, quella del film a episodi, quando il Cinema non-hollywoodiano era una realtà molto forte. Avevano cominciato autori celebri all’estero (il nostro Bava) e i Grandi (De Sica, Malle, Vadim, Fellini… ma anche la oggi riabilitata, gloriosa commedia all’italiana), prima che la consuetudine cominciasse ad essere assorbita dai film prettamente comico-demenziali con Pozzetto, Banfi e co. per scomparire poi del tutto sotto i colpi di Terminator.
Oggi che è tornato ad esserci interesse per un tipo di film non nutrito da soli fumi e raggi laser, alcuni produttori hanno avuto questa originale idea di rispolverare in grande stile l’antica formula dei tre episodi riportando la tradizione alle sue origini, cioè secondo i canoni della qualità. Con in più la trovata di passare per tre continenti coinvolgendo tre grandi nomi del Cinema mondiale.
Quello che viene fuori è un ritratto molto significativo del cinema d’autore di oggi; un ritratto che  secondo il modestissimo parere di chi scrive dovrebbe essere esaminato con attenzione dagli studiosi del settore. Dico ‘d’autore’ soprattutto riferendomi ad Antonioni, il regista su cui è stato costruito l’intero progetto, e Wong Kar-Wai, uno dei miei registi odierni preferiti in assoluto, per cui non avrò mai parole abbastanza entusiastiche. Sorvolerei sulla presenza di Steven Soderbergh, che già da prima di vedere il film mi era sembrato una scelta strana, un regista rispettabile ma non certo un Autore, appartenente com’è al più consolidato mainstreem americano. Al posto suo, come rappresentante USA avrei visto bene Sofia Coppola, più in sintonia con le sensibilità dei maestri italiano e cinese per il suo stile levigato, nonché per gli spiccati toni esistenzialisti dei suoi film.
Un passaggio di testimone, dicevo all’inizio. Perché tralasciando il regista di Erin Brockovich, ho sempre avuto l’impressione che Wong Kar-Wai fosse un Antonioni d’Oriente aggiornato ai nostri tempi. Beh, in questo film si vede chiaramente come l’ex ‘discepolo’ abbia definitivamente superato il Maestro, non perché le sue opere più importanti siano migliori di quelle del regista ferrarese che tanto ha dato al Cinema, ma di sicuro per come affronta gli spinosi temi del rapporto tra gli individui e del sentimento vacillante. Questo artista dagli occhi a mandorla è l’unico, dopo innumerevoli imitatori (soprattutto italiani) del Maestro, che abbia un tono sincero nel raccontare le tante ambiguità dei rapporti tra uomo e donna e non solo.

Mi dispiace non dimostrarmi più un ammiratore incondizionato di Antonioni, un regista dal sottile uso dell’immagine e dell’allusione, uno per cui o ‘ci si è’ o non lo si può apprezzare. Chi mi conosce sa come mi senta in sintonia con il suo mondo di psicologie tormentate.
L’autore di L’avventura, ormai “fresco novantenne in odore di santità”, come scrisse un quotidiano l’anno scorso facendomi parecchio ridere, racconta la classica situazione di una coppia funestata da un odio reciproco nato senza motivo (cosa, quest’ultima, rimasta tipica del maestro) che cede al tradimento. Con la particolarità che lei arriva a provare una pulsione strana per la terza (in)comoda su una spiaggia.
L’episodio è parzialmente rovinato dal doppiaggio di un personaggio che non corrisponde al labiale esattamente come è successo ne Il cartaio di Dario Argento. Ma comunque appare chiaro come il regista italiano abbia deciso di lavorare ancora più per sottrazione rispetto al passato. Una volta il suo lavorare per sottrazione era un’innovazione geniale, anche se dichiaratamente non alla portata di tutti. Ma in questo frangente ha scelto di lavorare per sottrazione di sottrazione, ed il risultato mi pare eccessivamente snobistico; così i suoi intenti diventano comprensibili solo a chi già conosce la sua poetica. In più, se è vero quel che ho letto su un giornale, il finale del film prevedeva ben più di un sottointeso rapporto saffico, ma c’è stata una censura del produttore americano allargata alla distribuzione del film in tutto il pianeta, cosa che avrebbe fatto molto inalberare il nostro decano della celluloide. Tra il doppiaggio e la censura è evidente che non ci sarebbero i mezzi per giudicare serenamente Il filo pericoloso delle cose (questo è l titolo del racconto), ma tenendo conto del tipo di scena che è stata eliminata si può dire che il risultato finale è esclusivamente estetico, di scenari, luci e corpi femminili in movimento, privo del sottinteso psicologico che si voleva rappresentare.   

Invece Wong Kar-Wai, con una maggiore eleganza e col vantaggio di dialoghi meno rarefatti, è riuscito (ancora una volta) a rendere originale una storia molto semplice, obiettivo che era sicuramente comune ad Antonioni.  Il suo estetizzante La mano è una delicata e struggente storia d’amore tra una fabbricante di stoffe e un giovane sarto cominciata in un modo trasgressivo e che si snoda negli anni fino a diventare un rapporto solido anche se fisicamente distante e non confidenziale, mantenendo così la sua in fondo rassicurante aura di mistero. Alla fine, la donna sicura e eroticamente dominante degli inizi diventa una persona debole e consunta dalla malattia a cui l’ha portata indirettamente la sua condizione di miseria, e prima di ‘partire’, come dice lei (e come viene riferito al mondo esterno dal giovane diventato ormai adulto), decide di ricambiare gli aiuti di lui con un’ultima pratica erotica (da qui il titolo) identica nella forma a quella che li aveva uniti tanti anni prima, ma opposta nel suo patetico senso. La falsa imposizione di allora ora è un inconfessato desiderio, in un soprassalto di orgoglio femminile, di sentirsi ancora viva col suo più giovane amico; richiesto pudicamente come fosse, più che un ringraziamento, il pietoso eppure dignitosissimo favore voluto da una donna che si appresta a salutare la vita.  Con l’espediente di voler far rivivere a lui l’ormai mitizzato gesto di tanti anni prima, nasconde infatti l’impossibilità di potergli dire addio nel modo in cui l’aveva abituato nei momenti migliori, regalandogli comunque uno dei momenti più intensi della sua vita di uomo. 
In comune, i due registi-filosofi che io ritengo consimili non hanno solo i contenuti e il pessimismo di fondo, ma anche una ricerca visiva seguita con metodi totalmente diversi, visto il divario anagrafico tra i due, ma assimilabile per la valenza che vi si dà. In Kar-Wai è molto evidente, e nelle sue opere di qualche anno fa addirittura sovraccarica e aggressiva. Cosa che mi ha conquistato perché, ad esempio, Hong Kong express e Angeli perduti coniugavano questo stile così accattivante e ‘hongkonghese’ fino allora usato solo nei film d’azione, a storie quotidiane di gente comune. Mentre in Antonioni la ricerca non si nota a livello conscio. Per capirla bisogna rapportarla ai suoi tempi: chi noterebbe oggi il simbolico contrasto di colore tra il dentro (caldo e rassicurante) e il di fuori (pallido e sgranato) degli ambienti di Il Deserto Rosso?
Altra affinità il fatto che non è cinema raccontabile: il metodo, qualche volta anche semplice, si fa contenuto. E’ cinema che va VISTO. Il raccontarlo lo fa apparire tutto sommato come un insieme di situazioni banali, magari senza capo né coda.
Due secondo me le differenze. Prima cosa i dialoghi: una maggiore verbosità nel cinese (che però ha il pregio di non stancare), una maggiore astrazione nell’italiano. Seconda cosa la maggiore poesia presente nel regista orientale, anche se ciò non è da considerarsi una superiore qualità ma solo una diversità di vedute, forse dovute al fatto che Antonioni è un ‘disilluso occidentale’, mentre l’altro è pur sempre inserito nel contesto storico di una Cina che vive, pur con tutti i suoi tuttora mastodontici contrasti, una pulsante spinta propulsiva verso il futuro.
Intendiamoci, il pessimismo è identico, ma una visione maggiormente poetica, come quella del cinese, spinge comunque ad una mitizzazione di un vissuto personale che certamente non poteva che  finir male, ma che ha in sé un seme, un’idea che ci fa credere che comunque tutto ciò valga la pena di essere vissuto, nonostante le pene. Questa concezione è sempre stata assente in Antonioni, che da decenni preferisce evidenziare il disfacimento delle relazioni e il conseguente nichilismo, cosa che crea un efficace e bizzarro contrasto con la sofisticata ricerca formale e visiva con cui tutto ciò è raccontato.
Interessante è notare come, parafrasando un motto politico (e un film) di tanti anni fa, “la Cina sia vicina” al nostro cantore dell’incomunicabilità. Lo fu a suo tempo con lo storico documentario che girò in quel continente, lo è oggi per l’ispirazione palesemente trasmessa a Kar-Wai. Fino addirittura ad un film insieme con quest’ultimo! Destini ‘elettivi’.

Tornando allo specifico del film, Soderbergh (messo lì, dicevo, come il cavolo a merenda forse perchè non si può essere del tutto liberi da esigenze commerciali) firma un episodio, Equilibrium, che pare più che altro un divertimento, un levigato ma inconcludente sberleffo alla psicanalisi. Qui sembra davvero che l’erotismo, più che il tema centrale, sia il pretesto per raccontare questa buffa vicenda di uno psicanalista che spia col binocolo una donna a cui manda anche messaggi con gli aeroplanini, il tutto durante le confessioni di un suo paziente steso sul lettino di spalle a lui. Il fatto di non vedere nemmeno alla fine la destinataria di tali attenzioni lascia lo spettatore piuttosto interdetto. E poco cambia il fatto che il tutto sia il frutto di una deformazione onirica del paziente.

Il momento da ricordare del film è uno, ma si potrebbe dire due, dal momento che nell’episodio cinese vi è una magnifica scena ripetuta come una sorta di estetizzante ornamento con lievissime differenze. Si tratta di una sequenza che vede la protagonista, l’impeccabile Gong Li, stagliarsi in una posizione da diva del muto su uno sfondo da  quadro ottocentesco in cui la sua immagine si muove leggermente con quasi impercettibili scatti per ricreare, complici anche la scenografia barocca e il colore opaco dell’episodio, proprio una sensazione di epoca remota. Il tutto sottolineato da una musica orientale dal suono straniante e antico in sottofondo. Sembra davvero di entrare, in due riprese e per una manciata di secondi, in un film dei fratelli Lumiére condito dal colore e da un vocalizzo femminile che sembra venire da una dimensione sconosciuta. L’effetto-sogno è garantito anche dal look stile ‘Garbo orientale’ dell’attrice e dalla vaghezza della collocazione temporale dell’episodio.
Ricordo lo stupore che ebbi anni fa vedendo Hong Kong Express, nel constatare che ci possa essere tanta immediata sintonia di gusto, senso dei tempi e sensibilità tra Occidente e Oriente. Sistematicamente succede che a tre quarti di un film di Wong Kar-Wai io, spettatore medio, pensi ‘io lo farei finire in un certo modo’ e che poi il film si concluda esattamente in quel modo. Non si scambi per prevedibilità, però: è solo una questione di sintonia.
A proposito di prevedibilità, oggi si dice che questo autore si ripeta in storie più o meno simili. Ma i suoi sono classici esempi di vicende umane tutte uguali e tutte diverse; i dettagli, la macchina da presa, i colori e i suoni sono ciò che fa la differenza. In un animo sensibile sono differenze enormi, evidenti. È proprio per queste cose, che l’ex discepolo ha definitivamente superato il maestro. 
Ma è perfettamente normale, nei ricambi generazionali. Tutto ciò non toglie nulla ad Antonioni.
Il film è da far tenere in seria considerazione dagli osservatori del settore, dicevo ormai molte righe fa, in quanto esempio casuale ma significativo di come le cose stiano nell’aria. La vivacità culturale va spesso di pari passo con quella economica, se non altro per la maggiore visibilità delle cose che questa comporta, così come il fermento e l’ottimismo sono da sempre alla base del rinascimento di vari campi che hanno in comune nient’altro che il luogo fisico. Perché è un intera forma mentis a cambiare. Così si può dire che abbiamo un involontario esempio, con questa opera di cinematografie a confronto, di come il futuro stia in Oriente non solo per i denari, ma anche per la creatività.

Giovanni Modica (recensione fatta nel dicembre del 2004)

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