Un passaggio di testimone. E’
così che io ho percepito il film EROS, frutto di un’operazione ambiziosa
figlia di altri tempi, quella del film a episodi, quando il Cinema
non-hollywoodiano era una realtà molto forte. Avevano cominciato autori celebri
all’estero (il nostro Bava) e i Grandi (De Sica, Malle, Vadim, Fellini… ma
anche la oggi riabilitata, gloriosa commedia all’italiana), prima che la
consuetudine cominciasse ad essere assorbita dai film prettamente
comico-demenziali con Pozzetto, Banfi e co. per scomparire poi del tutto sotto
i colpi di Terminator.
Oggi che è tornato ad esserci
interesse per un tipo di film non nutrito da soli fumi e raggi laser, alcuni
produttori hanno avuto questa originale idea di rispolverare in grande stile
l’antica formula dei tre episodi riportando la tradizione alle sue origini,
cioè secondo i canoni della qualità. Con in più la trovata di passare per tre
continenti coinvolgendo tre grandi nomi del Cinema mondiale.
Quello che viene fuori è un
ritratto molto significativo del cinema d’autore di oggi; un ritratto che secondo il modestissimo parere di chi scrive
dovrebbe essere esaminato con attenzione dagli studiosi del settore. Dico
‘d’autore’ soprattutto riferendomi ad Antonioni, il regista su cui è stato
costruito l’intero progetto, e Wong Kar-Wai, uno dei miei registi odierni
preferiti in assoluto, per cui non avrò mai parole abbastanza entusiastiche.
Sorvolerei sulla presenza di Steven Soderbergh, che già da prima di vedere il
film mi era sembrato una scelta strana, un regista rispettabile ma non certo un
Autore, appartenente com’è al più consolidato mainstreem americano. Al posto
suo, come rappresentante USA avrei visto bene Sofia Coppola, più in sintonia
con le sensibilità dei maestri italiano e cinese per il suo stile levigato,
nonché per gli spiccati toni esistenzialisti dei suoi film.
Un passaggio di testimone, dicevo all’inizio. Perché
tralasciando il regista di Erin Brockovich, ho sempre avuto l’impressione
che Wong Kar-Wai fosse un Antonioni d’Oriente aggiornato ai nostri tempi. Beh,
in questo film si vede chiaramente come l’ex ‘discepolo’ abbia definitivamente
superato il Maestro, non perché le sue opere più importanti siano migliori di
quelle del regista ferrarese che tanto ha dato al Cinema, ma di sicuro per come
affronta gli spinosi temi del rapporto tra gli individui e del sentimento
vacillante. Questo artista dagli occhi a mandorla è l’unico, dopo innumerevoli
imitatori (soprattutto italiani) del Maestro, che abbia un tono sincero nel
raccontare le tante ambiguità dei rapporti tra uomo e donna e non solo.
Mi dispiace non dimostrarmi più un ammiratore
incondizionato di Antonioni, un regista dal sottile uso dell’immagine e
dell’allusione, uno per cui o ‘ci si è’ o non lo si può apprezzare. Chi mi
conosce sa come mi senta in sintonia con il suo mondo di psicologie tormentate.
L’autore di L’avventura,
ormai “fresco novantenne in odore di santità”, come scrisse un quotidiano
l’anno scorso facendomi parecchio ridere, racconta la classica situazione di
una coppia funestata da un odio reciproco nato senza motivo (cosa,
quest’ultima, rimasta tipica del maestro) che cede al tradimento. Con la
particolarità che lei arriva a provare una pulsione strana per la terza
(in)comoda su una spiaggia.
L’episodio è parzialmente
rovinato dal doppiaggio di un personaggio che non corrisponde al labiale
esattamente come è successo ne Il cartaio di Dario Argento. Ma comunque
appare chiaro come il regista italiano abbia deciso di lavorare ancora più per
sottrazione rispetto al passato. Una volta il suo lavorare per sottrazione era
un’innovazione geniale, anche se dichiaratamente non alla portata di tutti. Ma
in questo frangente ha scelto di lavorare per sottrazione di sottrazione, ed il
risultato mi pare eccessivamente snobistico; così i suoi intenti diventano
comprensibili solo a chi già conosce la sua poetica. In più, se è vero quel che
ho letto su un giornale, il finale del film prevedeva ben più di un sottointeso
rapporto saffico, ma c’è stata una censura del produttore americano allargata
alla distribuzione del film in tutto il pianeta, cosa che avrebbe fatto molto
inalberare il nostro decano della celluloide. Tra il doppiaggio e la censura è
evidente che non ci sarebbero i mezzi per giudicare serenamente Il filo
pericoloso delle cose (questo è l titolo del racconto), ma tenendo conto
del tipo di scena che è stata eliminata si può dire che il risultato finale è
esclusivamente estetico, di scenari, luci e corpi femminili in movimento, privo
del sottinteso psicologico che si voleva rappresentare.
Invece Wong Kar-Wai, con una
maggiore eleganza e col vantaggio di dialoghi meno rarefatti, è riuscito
(ancora una volta) a rendere originale una storia molto semplice, obiettivo che
era sicuramente comune ad Antonioni. Il
suo estetizzante La mano è una delicata e struggente storia d’amore tra
una fabbricante di stoffe e un giovane sarto cominciata in un modo trasgressivo
e che si snoda negli anni fino a diventare un rapporto solido anche se
fisicamente distante e non confidenziale, mantenendo così la sua in fondo
rassicurante aura di mistero. Alla fine, la donna sicura e eroticamente
dominante degli inizi diventa una persona debole e consunta dalla malattia a
cui l’ha portata indirettamente la sua condizione di miseria, e prima di
‘partire’, come dice lei (e come viene riferito al mondo esterno dal giovane
diventato ormai adulto), decide di ricambiare gli aiuti di lui con un’ultima
pratica erotica (da qui il titolo) identica nella forma a quella che li aveva
uniti tanti anni prima, ma opposta nel suo patetico senso. La falsa imposizione
di allora ora è un inconfessato desiderio, in un soprassalto di orgoglio
femminile, di sentirsi ancora viva col suo più giovane amico; richiesto
pudicamente come fosse, più che un ringraziamento, il pietoso eppure
dignitosissimo favore voluto da una donna che si appresta a salutare la
vita. Con l’espediente di voler far
rivivere a lui l’ormai mitizzato gesto di tanti anni prima, nasconde infatti
l’impossibilità di potergli dire addio nel modo in cui l’aveva abituato nei
momenti migliori, regalandogli comunque uno dei momenti più intensi della sua
vita di uomo.
In comune, i due registi-filosofi
che io ritengo consimili non hanno solo i contenuti e il pessimismo di fondo,
ma anche una ricerca visiva seguita con metodi totalmente diversi, visto il
divario anagrafico tra i due, ma assimilabile per la valenza che vi si dà. In
Kar-Wai è molto evidente, e nelle sue opere di qualche anno fa addirittura
sovraccarica e aggressiva. Cosa che mi ha conquistato perché, ad esempio, Hong
Kong express e Angeli perduti coniugavano questo stile così
accattivante e ‘hongkonghese’ fino allora usato solo nei film d’azione, a
storie quotidiane di gente comune. Mentre in Antonioni la ricerca non si nota a
livello conscio. Per capirla bisogna rapportarla ai suoi tempi: chi noterebbe
oggi il simbolico contrasto di colore tra il dentro (caldo e rassicurante) e il
di fuori (pallido e sgranato) degli ambienti di Il Deserto Rosso?
Altra affinità il fatto che non è
cinema raccontabile: il metodo, qualche volta anche semplice, si fa contenuto.
E’ cinema che va VISTO. Il raccontarlo lo fa apparire tutto sommato come un
insieme di situazioni banali, magari senza capo né coda.
Due secondo me le differenze.
Prima cosa i dialoghi: una maggiore verbosità nel cinese (che però ha il pregio
di non stancare), una maggiore astrazione nell’italiano. Seconda cosa la
maggiore poesia presente nel regista orientale, anche se ciò non è da considerarsi
una superiore qualità ma solo una diversità di vedute, forse dovute al fatto
che Antonioni è un ‘disilluso occidentale’, mentre l’altro è pur sempre
inserito nel contesto storico di una Cina che vive, pur con tutti i suoi
tuttora mastodontici contrasti, una pulsante spinta propulsiva verso il futuro.
Intendiamoci, il pessimismo è
identico, ma una visione maggiormente poetica, come quella del cinese, spinge
comunque ad una mitizzazione di un vissuto personale che certamente non poteva
che finir male, ma che ha in sé un seme,
un’idea che ci fa credere che comunque tutto ciò valga la pena di essere
vissuto, nonostante le pene. Questa concezione è sempre stata assente in
Antonioni, che da decenni preferisce evidenziare il disfacimento delle
relazioni e il conseguente nichilismo, cosa che crea un efficace e bizzarro
contrasto con la sofisticata ricerca formale e visiva con cui tutto ciò è
raccontato.
Interessante è notare come,
parafrasando un motto politico (e un film) di tanti anni fa, “la Cina sia
vicina” al nostro cantore dell’incomunicabilità. Lo fu a suo tempo con lo
storico documentario che girò in quel continente, lo è oggi per l’ispirazione
palesemente trasmessa a Kar-Wai. Fino addirittura ad un film insieme con
quest’ultimo! Destini ‘elettivi’.
Tornando allo specifico del film,
Soderbergh (messo lì, dicevo, come il cavolo a merenda forse perchè non
si può essere del tutto liberi da esigenze commerciali) firma un episodio, Equilibrium,
che pare più che altro un divertimento, un levigato ma inconcludente sberleffo
alla psicanalisi. Qui sembra davvero che l’erotismo, più che il tema centrale,
sia il pretesto per raccontare questa buffa vicenda di uno psicanalista che
spia col binocolo una donna a cui manda anche messaggi con gli aeroplanini, il
tutto durante le confessioni di un suo paziente steso sul lettino di spalle a
lui. Il fatto di non vedere nemmeno alla fine la destinataria di tali
attenzioni lascia lo spettatore piuttosto interdetto. E poco cambia il fatto
che il tutto sia il frutto di una deformazione onirica del paziente.
Il momento da ricordare del film
è uno, ma si potrebbe dire due, dal momento che nell’episodio cinese vi è una
magnifica scena ripetuta come una sorta di estetizzante ornamento con
lievissime differenze. Si tratta di una sequenza che vede la protagonista,
l’impeccabile Gong Li, stagliarsi in una posizione da diva del muto su uno
sfondo da quadro ottocentesco in cui la
sua immagine si muove leggermente con quasi impercettibili scatti per ricreare,
complici anche la scenografia barocca e il colore opaco dell’episodio, proprio
una sensazione di epoca remota. Il tutto sottolineato da una musica orientale
dal suono straniante e antico in sottofondo. Sembra davvero di entrare, in due
riprese e per una manciata di secondi, in un film dei fratelli Lumiére condito
dal colore e da un vocalizzo femminile che sembra venire da una dimensione
sconosciuta. L’effetto-sogno è garantito anche dal look stile ‘Garbo orientale’
dell’attrice e dalla vaghezza della collocazione temporale dell’episodio.
Ricordo lo stupore che ebbi anni
fa vedendo Hong Kong Express, nel constatare che ci possa essere tanta
immediata sintonia di gusto, senso dei tempi e sensibilità tra Occidente e
Oriente. Sistematicamente succede che a tre quarti di un film di Wong Kar-Wai
io, spettatore medio, pensi ‘io lo farei finire in un certo modo’ e che poi il
film si concluda esattamente in quel modo. Non si scambi per prevedibilità,
però: è solo una questione di sintonia.
A proposito di prevedibilità,
oggi si dice che questo autore si ripeta in storie più o meno simili. Ma i suoi
sono classici esempi di vicende umane tutte uguali e tutte diverse; i dettagli,
la macchina da presa, i colori e i suoni sono ciò che fa la differenza. In un
animo sensibile sono differenze enormi, evidenti. È proprio per queste cose,
che l’ex discepolo ha definitivamente superato il maestro.
Ma è perfettamente normale, nei
ricambi generazionali. Tutto ciò non toglie nulla ad Antonioni.
Il film è da far tenere in seria
considerazione dagli osservatori del settore, dicevo ormai molte righe fa, in
quanto esempio casuale ma significativo di come le cose stiano nell’aria. La
vivacità culturale va spesso di pari passo con quella economica, se non altro
per la maggiore visibilità delle cose che questa comporta, così come il
fermento e l’ottimismo sono da sempre alla base del rinascimento di vari campi
che hanno in comune nient’altro che il luogo fisico. Perché è un intera forma
mentis a cambiare. Così si può dire che abbiamo un involontario esempio, con questa
opera di cinematografie a confronto, di come il futuro stia in Oriente non solo
per i denari, ma anche per la creatività.
Giovanni Modica (recensione fatta nel dicembre del 2004)
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