sabato 9 marzo 2013

LA GUERRA DEI MONDI di Steven Spielberg

La presente recensione potrebbe valere il doppio o nulla, a seconda di come si vuole giudicare il commento di un non appassionato del genere fantascientifico (salvo pochissime eccezioni) su La guerra dei mondi.
Spielberg non è mai stato un regista “da prendere o lasciare” in toto, perché i suoi film sono sempre stati meravigliosamente imperfetti, ed il suo tocco non ha mai mancato di nobilitare trame non originalissime o qualche situazione traballante.
Questa pellicola ha un motivo di interesse in più rispetto al fortunato Minority report, ed è quello del confronto con il cinema di ieri. Qui non si tratta del solito remake a la page: il precedente La guerra dei mondi ha ormai più di 40 anni sulle spalle e risale quindi agli albori della fantascienza americana, quando ancora era considerata un genere da drive in per ragazzi pronti a distrarsi dal film in favore di conquiste più terrene di quelle narrate sullo schermo.
Il film del 1953 - tratto da un romanzo di Wells - aveva degli effetti speciali oggi ovviamente risibili che rischierebbero, agli occhi del più giovane che si accosta alla sua visione, di non essere presi sul serio nonostante all’epoca fossero un’operazione all’avanguardia.
Si trattava quindi di attualizzare e di rendere atemporale una trama degna di essere nobilitata dai mezzi odierni. Certo, lo script originale, per quanto modernizzato, tradisce qualche ingenuità e nel finale si nota tutta la distanza tra i gusti di allora e quelli di oggi, in cui siamo abituati ad avere il culmine del film – di solito basato su strenui combattimenti – concentrato in un gran finale in favore dell’eroe protagonista e non di un’idea pseudoscientifica che sostanzialmente vede le cose risolversi da sole.
Qui non si vuole dare giudizi sulla concezione della sci-fi di ieri e di oggi né sull’evoluzione/involuzione dei gusti, ma fare notare un interessante confronto tra le epoche.
I veri appassionati del genere sono quindi invitati a vedere anche l’originale, non per mettere le due opere sulla bilancia come si è soliti fare, ma per motivi puramente storici.
Gli amici in sala, non essendo a conoscienza della pellicola originale, sono rimasti perplessi su alcuni momenti (specie nel finale) del film. Il metro giusto del giudizio rischia quindi di sfuggire ai più, a meno che non li si informi su dove l’opera affondi le sue radici.
Poco da dire sugli attori, chiamati per dare un contributo piuttosto convenzionale e di immagine in un’opera che non vuole avere il suo punto di forza nell’introspezione.
 
Spielberg da qualche tempo ha adottato anche lui l’efficacie stile nervoso e in perenne movimento tipico degli ultimi anni, in cui la macchina da presa, pur non raggiungendo gli estremi febbricitanti di Oliver Stone, non si limita più ad agitarsi solo nelle sequenze d’azione, ma rende palpabili anche i moti interiori dei personaggi con simbolici escamotage in apparenza fini a se stessi (come le fulminee carrellate dalla spalla alla mano di Ray Ferrier-Tom Cruise mentre gioca a baseball litigando col figlio).   
Ovviamente, anche non alla luce del confronto col 1953, gli effetti speciali di un film di Spielberg sono impeccabili e qui non si fa eccezione, ma vale la pena comunque di citarne i migliori esempi: lo spaccamento della crosta terrestre e l’allargamento dei crateri generati sono al vertice del realismo, e vengono purtroppo parzialmente rovinati da alcune scelte di sceneggiatura che ne attenuano la veridicità, come ad esempio la reazione della folla talmente curiosa da non riuscire a scostarsi dal terreno in continuo disfacimento se non di un metro, indietreggiando solo di un passo per volta inscenando così una ‘danza’ con la terra molto suggestiva visivamente, ma poco attendibile sul piano della credibilità.
Così come fuori luogo l’eccessivamente lunga scena dell’intrusione dell’‘occhio meccanico’ alieno all’interno del rifugio ci porta a domandarci per quale motivo extraterrestri che avevano polverizzato interi edifici avessero bisogno di perlustrare l’ambiente per scovare eventuali presenze umane da sopprimere.
La scena, comunque, resta interessante per altri aspetti: Tim Robbins (poco più che un cammeo), dopo avere ospitato nel suddetto rifugio Ferrier & figli, comincia ad entrare nel panico e a sragionare al punto che il protagonista decide di eliminarlo per poi adottare la stessa drastica soluzione proposta dall’ospitante: il colpo d’ascia!… Il personaggio di Cruise non dimostra alcun rimorso per questo eccesso, che viene mostrato come qualcosa di falsamente necessario.
A mio giudizio poteva diventare la scena maggiormente inquietante del film, in quanto avrebbe potuto mostrare più minuziosamente quanto il lato oscuro delle persone possa annebbiare la ragione di vittime e carnefici in un contesto di emergenza. Può darsi che Spielberg abbia avuto paura di appesantire la storia con “intellettualismi” forse più consoni al filone ‘serio’ del suo cinema.
 
Ma veniamo ai tocchi da maestro.
Notevole il modo turbinoso con cui è stata girata la scena della fuga in macchina verso la moglie in un’altra città ed in particolare il frammento che vede l’auto dei tre protagonisti violentemente assediata dalla folla ansiosa di scappare con loro (la maggior parte delle auto era stato messo fuori uso).
Meravigliosa ed inaspettata la scena del fiume di cadaveri, con la bambina - arrivata lì per motivi fisiologici - che rimane ammutolita di fronte al macabro spettacolo trasportato dalla corrente. Prima uno, poi tre, e poi ancora e ancora, in un silenzioso scenario post-apocalittico. Un tocco tragicamente lirico che il maestro americano avrebbe potuto rendere anche più lungo, non fosse sempre costretto a rispettare i termini di velocità del cinema d’azione.
A mio avviso, quindi, le parti geniali del film non sono quelle puramente fantascientifiche.
L’originalità della sequenza del fiume e lo spiazzante finale privo di ‘fuochi d’artificio’ riscattano questa piacevole opera anche da alcune stucchevolezze spielberghiane come i bambini sempre coraggiosi e intelligentissimi di fronte ai quali gli adulti sfigurano clamorosamente o la miracolosa ricomparsa del figlio maggiore sulla quale chiunque avrebbe scommesso.
Un pizzico di ironia e di attualità nel momento in cui i figli sospettano che i disastri siano stati compiuti dai terroristi  offre allo spettatore una battuta da ricordare.
Più che interessante, poi, il parallelismo (e la metafora) che abbiamo a metà film tra la tragedia del Titanic e l’imminente fine del mondo per mano aliena, con la folla terrorizzata che fa quasi a pugni per potersi imbarcare mentre una voce li rassicura gridando: “c’è posto per tutti”, fino al crollo della situazione sotto il collasso generale.
Il sottofondo di musica rilassante diffuso dagli altoparlanti per tranquillizzare la massa richiama alla mente il celeberrimo “Walzer delle candele”, che per essere stato suonato con le stesse finalità sulla nave più famosa del mondo si era guadagnato l’infamante etichetta di menagramo.
 
Un film molto spielberghiano, dunque, con un impianto sostanzialmente classico disseminato qua e là di elementi innovativi soprattutto nel plot secondario, impedibile per gli amanti dello Spielberg disimpegnato e per chi ha amato la sci-fi dei tempi andati.
Ma mi raccomando: vedere sempre anche gli originali!
 
Basato sull’omonimo romanzo di H. G. Welles e remake del film “The War of the Worlds” di Byron Haskin (1953)
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel giugno del 2005)

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