La presente recensione potrebbe
valere il doppio o nulla, a seconda di come si vuole giudicare il commento di
un non appassionato del genere fantascientifico (salvo pochissime eccezioni) su
La guerra dei mondi.
Spielberg non è mai stato un
regista “da prendere o lasciare” in toto, perché i suoi film sono sempre stati
meravigliosamente imperfetti, ed il suo tocco non ha mai mancato di nobilitare
trame non originalissime o qualche situazione traballante.
Questa pellicola ha un motivo di
interesse in più rispetto al fortunato Minority report, ed è quello del
confronto con il cinema di ieri. Qui non si tratta del solito remake a la
page: il precedente La guerra dei mondi ha ormai più di 40 anni
sulle spalle e risale quindi agli albori della fantascienza americana, quando
ancora era considerata un genere da drive in per ragazzi pronti a distrarsi dal
film in favore di conquiste più terrene di quelle narrate sullo schermo.
Il film del 1953 - tratto da un
romanzo di Wells - aveva degli effetti speciali oggi ovviamente risibili che
rischierebbero, agli occhi del più giovane che si accosta alla sua visione, di
non essere presi sul serio nonostante all’epoca fossero un’operazione
all’avanguardia.
Si trattava quindi di
attualizzare e di rendere atemporale una trama degna di essere nobilitata dai
mezzi odierni. Certo, lo script originale, per quanto modernizzato, tradisce
qualche ingenuità e nel finale si nota tutta la distanza tra i gusti di allora
e quelli di oggi, in cui siamo abituati ad avere il culmine del film – di
solito basato su strenui combattimenti – concentrato in un gran finale in
favore dell’eroe protagonista e non di un’idea pseudoscientifica che
sostanzialmente vede le cose risolversi da sole.
Qui non si vuole dare giudizi
sulla concezione della sci-fi di ieri e di oggi né sull’evoluzione/involuzione
dei gusti, ma fare notare un interessante confronto tra le epoche.
I veri appassionati del genere
sono quindi invitati a vedere anche l’originale, non per mettere le due opere
sulla bilancia come si è soliti fare, ma per motivi puramente storici.
Gli amici in sala, non essendo a
conoscienza della pellicola originale, sono rimasti perplessi su alcuni momenti
(specie nel finale) del film. Il metro giusto del giudizio rischia quindi di
sfuggire ai più, a meno che non li si informi su dove l’opera affondi le sue
radici.
Poco da dire sugli attori,
chiamati per dare un contributo piuttosto convenzionale e di immagine in
un’opera che non vuole avere il suo punto di forza nell’introspezione.
Spielberg da qualche tempo ha
adottato anche lui l’efficacie stile nervoso e in perenne movimento tipico
degli ultimi anni, in cui la macchina da presa, pur non raggiungendo gli
estremi febbricitanti di Oliver Stone, non si limita più ad agitarsi solo nelle
sequenze d’azione, ma rende palpabili anche i moti interiori dei personaggi con
simbolici escamotage in apparenza fini a se stessi (come le fulminee carrellate
dalla spalla alla mano di Ray Ferrier-Tom Cruise mentre gioca a baseball
litigando col figlio).
Ovviamente, anche non alla luce
del confronto col 1953, gli effetti speciali di un film di Spielberg sono
impeccabili e qui non si fa eccezione, ma vale la pena comunque di citarne i
migliori esempi: lo spaccamento della crosta terrestre e l’allargamento dei
crateri generati sono al vertice del realismo, e vengono purtroppo parzialmente
rovinati da alcune scelte di sceneggiatura che ne attenuano la veridicità, come
ad esempio la reazione della folla talmente curiosa da non riuscire a scostarsi
dal terreno in continuo disfacimento se non di un metro, indietreggiando solo
di un passo per volta inscenando così una ‘danza’ con la terra molto suggestiva
visivamente, ma poco attendibile sul piano della credibilità.
Così come fuori luogo l’eccessivamente
lunga scena dell’intrusione dell’‘occhio meccanico’ alieno all’interno del
rifugio ci porta a domandarci per quale motivo extraterrestri che avevano
polverizzato interi edifici avessero bisogno di perlustrare l’ambiente per
scovare eventuali presenze umane da sopprimere.
La scena, comunque, resta
interessante per altri aspetti: Tim Robbins (poco più che un cammeo), dopo
avere ospitato nel suddetto rifugio Ferrier & figli, comincia ad entrare
nel panico e a sragionare al punto che il protagonista decide di eliminarlo per
poi adottare la stessa drastica soluzione proposta dall’ospitante: il colpo
d’ascia!… Il personaggio di Cruise non dimostra alcun rimorso per questo
eccesso, che viene mostrato come qualcosa di falsamente necessario.
A mio giudizio poteva diventare
la scena maggiormente inquietante del film, in quanto avrebbe potuto mostrare
più minuziosamente quanto il lato oscuro delle persone possa annebbiare la
ragione di vittime e carnefici in un contesto di emergenza. Può darsi che
Spielberg abbia avuto paura di appesantire la storia con “intellettualismi”
forse più consoni al filone ‘serio’ del suo cinema.
Ma veniamo ai tocchi da maestro.
Notevole il modo turbinoso con
cui è stata girata la scena della fuga in macchina verso la moglie in un’altra
città ed in particolare il frammento che vede l’auto dei tre protagonisti
violentemente assediata dalla folla ansiosa di scappare con loro (la maggior
parte delle auto era stato messo fuori uso).
Meravigliosa ed inaspettata la
scena del fiume di cadaveri, con la bambina - arrivata lì per motivi
fisiologici - che rimane ammutolita di fronte al macabro spettacolo trasportato
dalla corrente. Prima uno, poi tre, e poi ancora e ancora, in un silenzioso
scenario post-apocalittico. Un tocco tragicamente lirico che il maestro
americano avrebbe potuto rendere anche più lungo, non fosse sempre costretto a
rispettare i termini di velocità del cinema d’azione.
A mio avviso, quindi, le parti
geniali del film non sono quelle puramente fantascientifiche.
L’originalità della sequenza del
fiume e lo spiazzante finale privo di ‘fuochi d’artificio’ riscattano questa
piacevole opera anche da alcune stucchevolezze spielberghiane come i bambini
sempre coraggiosi e intelligentissimi di fronte ai quali gli adulti sfigurano
clamorosamente o la miracolosa ricomparsa del figlio maggiore sulla quale
chiunque avrebbe scommesso.
Un pizzico di ironia e di
attualità nel momento in cui i figli sospettano che i disastri siano stati
compiuti dai terroristi offre allo
spettatore una battuta da ricordare.
Più che interessante, poi, il
parallelismo (e la metafora) che abbiamo a metà film tra la tragedia del
Titanic e l’imminente fine del mondo per mano aliena, con la folla terrorizzata
che fa quasi a pugni per potersi imbarcare mentre una voce li rassicura
gridando: “c’è posto per tutti”, fino al crollo della situazione sotto il
collasso generale.
Il sottofondo di musica
rilassante diffuso dagli altoparlanti per tranquillizzare la massa richiama
alla mente il celeberrimo “Walzer delle candele”, che per essere stato suonato
con le stesse finalità sulla nave più famosa del mondo si era guadagnato
l’infamante etichetta di menagramo.
Un film molto spielberghiano,
dunque, con un impianto sostanzialmente classico disseminato qua e là di
elementi innovativi soprattutto nel plot secondario, impedibile per gli amanti
dello Spielberg disimpegnato e per chi ha amato la sci-fi dei tempi andati.
Ma mi raccomando: vedere sempre
anche gli originali!
Basato sull’omonimo
romanzo di H. G. Welles e remake del film “The War of the Worlds” di Byron Haskin
(1953)
Giovanni Modica (recensione fatta nel giugno del 2005)
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