Da qualche anno si assiste ormai
alla quasi totale rivalutazione del cinema di genere nostrano.
Dico quasi perché (e questo forse
non sarà stato notato da tutti) c’è un genere che non viene quasi mai citato,
ed è uno dei miei preferiti in assoluto: il giallo. Su questo, non so perché,
ha sempre prevalso l’horror, sia nelle preferenze degli internauti, sia in
quelle degli acquirenti di dvd. Per non parlare del GSBM (Gran Sacerdote dei
B-Movies) Quentin Tarantino, sempre pronto a riscoprire gemme del poliziesco o
del western, ma poco propenso a glorificare i film d’intreccio; fatto strano,
essendo Pulp fiction una delle più accattivanti storie ad intreccio mai
prodotte in celluloide. Per quanto riguarda questo genere, il nostro simpatico
GSBM ha tessuto le lodi solo di Cosa avete fatto a Solange? di Massimo
Dallamano, di Sette note in nero di Lucio Fulci e di Profondo rosso di Dario Argento,
limitandosi poi a citare frettolosamente soltanto qualcosa di Sergio Martino o
di Umberto Lenzi. Cosa sacrosanta ma, secondo me, ancora insufficiente,
considerata la mole di una produzione di oltre 120 film.
Quando ho visto annunciare per la
prima volta questo sedicente giallo dal titolo Occhi di cristallo,
dunque, forse anche a causa di quella luccicante parola che mi
riportava al celebre L’uccello dalle piume di cristallo, mi sono
fregato le mani. Ma due giorni fa ci ha pensato il film a fregarmi tutto il
resto, e comincio solo ora a capire che l’attività di recensore può essere
anche molto dura, tanto che ho pensato se fosse davvero il caso, non essendo
costretto a farlo, di scrivere qualcosa su un film che non mi ha convinto del
tutto. Alla fine mi sono risposto di sì, perché qualcosa di interessante da
dire comunque c’è… e non per stroncare!
Intanto è una storia ad
intreccio, uno dei pochi ma coraggiosi tentativi di far rinascere il thriller
italiano, il che rappresenta apparentemente un paradosso, se si pensa al fatto
che generi ‘vintage’ più alla moda come appunto il ‘poliziottesco’ o il western
non vantano nel nostro paese neanche questi pochi tentativi. Ma il controsenso
è apparente perché il poliziesco è, con le dovute differenze, delegato ai
serial tv come La squadra, e il western è defunto, nonostante gli sforzi di
Kevin Costner, anche negli USA. Mentre il thriller e il mystery nel mondo sono
vivi e vegeti! Dunque perché non rifarli anche qui, come una volta? Altrimenti
restiamo con Don Matteo e Il maresciallo Rocca, che di suspense ne hanno ben
poca!! Così, da qualche tempo, Alex Infascelli cerca di fare nuovi film di
questo tipo, ed ora anche Eros Puglielli. Ma purtroppo sembra che più che
rifarsi alla tradizione del giallo fulciano o argentiano, magari aggiornandola,
questi registi abbiano visto troppe volte Il silenzio degli innocenti,
con tutti quei collage di corpi e l’ostentata estetica del degradato e del
disturbante. E con una certa vena horror particolarmente marcata che li rende
lontani parenti solo dei gialli più estremi del nostro cinema degli ‘80 (Tenebre
e Lo squartatore di New York) e della seconda parte dei ‘70 (Macchie
solari), dimentichi delle poche grida e degli ambienti eleganti dei gialli
‘puri’ prodotti in precedenza. All’inizio, poi, questo film di Puglielli
ricorda addirittura i Mondo movies e i Cannibal horrors di Deodato, con tutte
quelle scene insopportabili di animali torturati e uccisi che mi auguro, da
buon animalista, siano solo simulate.
Subito dopo si snoda la classica
caccia al serial killer, con il collaudato repertorio di omicidi a iosa, false
piste e scheletri nell’armadio che emergono dal passato di personaggi
insospettabili.
Lo spettatore può scegliere di
sospettare tra un malato in fin di vita, due giovani donne con cui viene in
contatto il poliziotto protagonista, una lavorante di un ospedale e un
professore universitario. Ma c’è anche uno strano studente che non parla mai e
guarda di sottecchi alcuni protagonisti del film quando questi si trovano in
Facoltà!….
La matrice italiana della
pellicola si nota più che altro dal tipo di movente, che vede, come in Profondo
rosso o I corpi presentano tracce di violenza carnale la presenza di
un trauma infantile e di una bambola, nonché un pizzico di ‘sana’
psicopatologia sessuale.
A parte il coraggio (lo dico
senza ironia), sembrerebbe, fin qui, che questo film non abbia meriti
particolari. Invece li ha. La spettacolarità, ad esempio, che era stata quasi
abolita nel decennio scorso, qui abbonda senza paura di esagerare e, di
conseguenza, ha dei buoni momenti di tensione, anche se concentrata quasi tutta
verso la fine. La recitazione, sempre impeccabile, e l’anticonformismo di Luigi
Lo Cascio, che benché venga prima dal teatro e poi dal cinema d’autore ha
dimostrato che un attore con la A maiuscola non disdegna un cinema senza
messaggi e fatto di pura emozione, inteso solo come spettacolo popolare. Il
fatto di non avere una morale, cosa che di per sé non è né buona né cattiva,
qui diventa una vera qualità e segno di intelligenza da parte del regista, che
evita così di appesantire il film e di dargli un tono insincero, impressione
che mi hanno dato gli ultimi gialli ‘mass-mediologici’ come Cattive
inclinazioni o Il siero della vanità.
Poco conta se a volte la trama è
improbabile (non era così anche nel capolavoro di Jonathan Demme tanto caro ai
nuovi registi?), come nella scena in cui Lo Cascio va a trovare il malato in
ospedale e lo trova sì sempre steso sul solito letto della solita stanza, ma
senza la sua abituale testa, sostituita dal killer con quella di una bambola di
legno.
Ora, Voi che leggete, potreste
dire a ragion veduta che, non avendo mai provato a farlo non ho i mezzi per
sostenerlo, ma ritengo alquanto difficile entrare in un ospedale, segare la
testa di un paziente e portarla via dopo averla prontamente sostituita con una
finta portata lì in una busta. E fare il tutto senza sporcare il cuscino (a
meno che l’assassino non abbia avuto l’accortezza di sostituire pure quello).
Il parziale riscatto del film,
come dicevo poc’anzi, sta tutto nella sontuosa scena finale, che culmina quando
il colpevole di tali nefandezze, ferito a morte, precipita giù da una rupe su
uno spicchio di mare dal fondale basso subito dopo il fantoccio mostruoso che
aveva costruito, che da sotto l’acqua sembra attenderlo mentre lui, cadendo, lo
vede e grida terrorizzato come sentendosi inghiottito definitivamente nei suoi
incubi e nelle sue ossessioni malate.
La scena è resa con una tale
precisione visiva da fare capire che quel che manca a Puglielli non è certo il
talento tecnico, ma solo uno script più adeguato.
Comunque sia, potete capire come Occhi
di cristallo sembri più un tentativo di far rinascere l’horror made in
Italy piuttosto che il giallo dell’età d’oro che va dal ’69 al ‘72.
Come mai nessuno vuole provarla,
questa benedetta mezza misura tra Montalbano e il film di paura?
Giovanni Modica (recensione fatta nel novembre del 2004)
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