Esiste un genere Pupi Avati. Una
volta i suoi film non erano identificabili solo con un tipo di storia. C’era La
mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, c’era La casa dalle
finestre che ridono… Ma da vent’anni, se si eccettua la mini-saga sul gioco
a carte e poco altro, sembra di tuffarsi ogni volta in una sorta di melassa, di
amici timidoni e imbranati che sognano solo le brave ragazze illibate e della
nostalgia dei bei (?) tempi che furono.
In questo film dall’accattivante
titolo “Ma quando arrivano le ragazze?” si è proprio da quelle parti.
Io lo sono andato a vedere per il
redivivo Johnny Dorelli, attore simpatico e dotato di un’ironia e di una
spontaneità fuori dal comune, confermate pienamente in questo film. Bisogna
dire quindi bravo al regista per aver scelto un interprete ingiustamente
ignorato nel mondo del cinema solo perché - è evidente - non ha mai sgomitato
per farsi pubblicità.
La storia si regge bene
soprattutto nella sua costruzione, quando entrano in scena gradualmente tutti i
personaggi, primi fra i quali i due - si dice - alter-ego del regista stesso e
dell’amico Lucio Dalla.
Naturalmente si parla di musica.
Gianca (Paolo Briguglia) e Nick (Claudio Santamaria) si conoscono in treno nel
viaggio verso una prestigiosa scuola di jazz di Perugia per sostenere un esame.
Uno dei due non sa leggere la musica, ma (miracoli del cinema!) ce la fa
comunque a superare la prova esattamente come il più suo istruito amico. Poi si
torna nella città-feticcio del campanilista Avati, e lo spettatore di Bologna
si divertirà a notare come una volta di più i luoghi a lui familiari
costituiscano un personaggio a sé stante.
Noi del capoluogo emiliano, non
avendo nessuno che ci celebri, ce la cantiamo e le la suoniamo da soli (ma
aspettiamo che esca l’ultimo romanzo di ‘Zon Grìssiam’!…).
Nel prosieguo vediamo varie
situazioni simpatiche in puro stile commedia all’italiana con i due ragazzi che
cercano di formare un gruppo insieme a due individui alquanto sfaccendati e
molto “alternativi” impersonati da una coppia di attori già vista in Radiofreccia
di Ligabue: Enrico Salimbeni e Alessio Modica (per anni ho sentito ragazzine
sconosciute telefonare a casa mia e chiedere di Alessio. Dopo questo film temo
che ricomincino… Alessio, usa uno pseudonimo!). Prima e dopo l’aggiunta di un
quinto elemento nel gruppo, vediamo Modica entrare e uscire dai bagni per
malori continui dovuti alle droghe assunte, ma il tutto viene descritto in
chiave comica. Nella realtà, dei tipi così si interesserebbero di metal, e non
di jazz… ma non importa.
Dorelli è il padre alto-borghese,
ed ex musicista anch’egli, del protagonista Gianca, il cui gruppo viene da lui
incitato al motto di “Fategli il culo!” (risposta: “…A chi?”)
Poi ci si incomincia a soffermare
seriamente sul lato romantico, e qui compare inesorabile l’Avati’s touch:
Francesca (Vittoria Puccini) è la ragazza-bene che semina il malumore tra
Gianca e Nick a causa delle classiche “incertezze” sentimentali.
Crisi, lunghi silenzi e
un’amicizia fortemente incrinata si accompagnano all’attività artistica dei
giovani che girano ormai per turnée in tutta Italia.
Ma solo uno di loro avrà un
successo vero e duraturo, e, in occasione del suo concerto più importante nella
città da cui tutto partì, sceglie di eseguire un brano non classico ma
‘dedicato a un amico’ e con una lunga storia alle spalle. Ed è il brano che dà
il titolo al film.
Oltre al pezzo musicale, il
titolo del film è legato anche ad una scena in cui Dorelli, steso sul divano,
snocciola al figlio un saggio di vita vissuta: “…alla tua età sembra che non
arrivino mai, e sembrava anche a me. Ma poi sono arrivate tutte insieme, le
ragazze, e ti posso dire il giorno… perché me lo ricordo, sai? È stato un
giorno preciso”. Un momento felice del film - forse perché riguarda Dorelli -,
anche se riassume in pieno quel tocco di nostalgia che percorre quasi tutta
l’opera di Avati.
Fra le scene divertenti
segnalerei quella in cui al batterista che viaggia in una macchina mutilata di
uno sportello viene regalato per il compleanno proprio il suddetto accessorio,
e con tanto di fiocco rosso!
Il finale, che vorrebbe essere
struggente, in realtà appare alquanto forzato: a fratture personali
praticamente risolte, perché i personaggi si perdono di vista? La cosa viene
descritta come un inevitabile passaggio della vita, ma in realtà non si capisce
perché debba essere necessariamente così. Il “non so più niente di loro”, qui
sembra più che altro un pretesto per creare nello spettatore meno smaliziato una
certa commozione. Ma al di là dei luoghi
comuni, le amicizie eterne esistono. Magari si ridimensionano col tempo, ma
spesso sopravvivono. Il fare apparire come significativa l’esperienza accaduta
a questo ragazzo, la trovo una scelta ardita e un po’ furba.
Di conseguenza trovo ingenua
anche la metafora della stella che si avvicina alla terra per poi sparire nello
spazio. Io la suddetta scena la troverei significativa in un altro senso:
facendo vedere una stella che si muove nell’universo, il regista sembra volere
‘universalizzare’ quello che in realtà è il suo personale mondo emotivo. In
tante altre storie avatiane forse non sarebbe sembrata fuoriluogo, ma qui….
Un’ultima considerazione riguarda
la collocazione storica della storia: sembra di vedere un film ambientato negli
anni 50, anche se è chiaro attraverso i dettagli che si è ai giorni nostri.
Forse Avati non riesce più a
sfuggire a se stesso, avendo celebrato per troppe volte l’Emilia della prima
metà del secolo. Ma ogni regista ha le sue ossessioni…
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2005)
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