venerdì 8 marzo 2013

MA QUANDO ARRIVANO LE RAGAZZE? di Pupi Avati

Esiste un genere Pupi Avati. Una volta i suoi film non erano identificabili solo con un tipo di storia. C’era La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone, c’era La casa dalle finestre che ridono… Ma da vent’anni, se si eccettua la mini-saga sul gioco a carte e poco altro, sembra di tuffarsi ogni volta in una sorta di melassa, di amici timidoni e imbranati che sognano solo le brave ragazze illibate e della nostalgia dei bei (?) tempi che furono.
In questo film dall’accattivante titolo “Ma quando arrivano le ragazze?” si è proprio da quelle parti.
Io lo sono andato a vedere per il redivivo Johnny Dorelli, attore simpatico e dotato di un’ironia e di una spontaneità fuori dal comune, confermate pienamente in questo film. Bisogna dire quindi bravo al regista per aver scelto un interprete ingiustamente ignorato nel mondo del cinema solo perché - è evidente - non ha mai sgomitato per farsi pubblicità.
La storia si regge bene soprattutto nella sua costruzione, quando entrano in scena gradualmente tutti i personaggi, primi fra i quali i due - si dice - alter-ego del regista stesso e dell’amico Lucio Dalla.
Naturalmente si parla di musica. Gianca (Paolo Briguglia) e Nick (Claudio Santamaria) si conoscono in treno nel viaggio verso una prestigiosa scuola di jazz di Perugia per sostenere un esame. Uno dei due non sa leggere la musica, ma (miracoli del cinema!) ce la fa comunque a superare la prova esattamente come il più suo istruito amico. Poi si torna nella città-feticcio del campanilista Avati, e lo spettatore di Bologna si divertirà a notare come una volta di più i luoghi a lui familiari costituiscano un personaggio a sé stante.
Noi del capoluogo emiliano, non avendo nessuno che ci celebri, ce la cantiamo e le la suoniamo da soli (ma aspettiamo che esca l’ultimo romanzo di ‘Zon Grìssiam’!…).
Nel prosieguo vediamo varie situazioni simpatiche in puro stile commedia all’italiana con i due ragazzi che cercano di formare un gruppo insieme a due individui alquanto sfaccendati e molto “alternativi” impersonati da una coppia di attori già vista in Radiofreccia di Ligabue: Enrico Salimbeni e Alessio Modica (per anni ho sentito ragazzine sconosciute telefonare a casa mia e chiedere di Alessio. Dopo questo film temo che ricomincino… Alessio, usa uno pseudonimo!). Prima e dopo l’aggiunta di un quinto elemento nel gruppo, vediamo Modica entrare e uscire dai bagni per malori continui dovuti alle droghe assunte, ma il tutto viene descritto in chiave comica. Nella realtà, dei tipi così si interesserebbero di metal, e non di jazz… ma non importa.
Dorelli è il padre alto-borghese, ed ex musicista anch’egli, del protagonista Gianca, il cui gruppo viene da lui incitato al motto di “Fategli il culo!” (risposta: “…A chi?”)
Poi ci si incomincia a soffermare seriamente sul lato romantico, e qui compare inesorabile l’Avati’s touch: Francesca (Vittoria Puccini) è la ragazza-bene che semina il malumore tra Gianca e Nick a causa delle classiche “incertezze” sentimentali.
Crisi, lunghi silenzi e un’amicizia fortemente incrinata si accompagnano all’attività artistica dei giovani che girano ormai per turnée in tutta Italia.
Ma solo uno di loro avrà un successo vero e duraturo, e, in occasione del suo concerto più importante nella città da cui tutto partì, sceglie di eseguire un brano non classico ma ‘dedicato a un amico’ e con una lunga storia alle spalle. Ed è il brano che dà il titolo al film.
Oltre al pezzo musicale, il titolo del film è legato anche ad una scena in cui Dorelli, steso sul divano, snocciola al figlio un saggio di vita vissuta: “…alla tua età sembra che non arrivino mai, e sembrava anche a me. Ma poi sono arrivate tutte insieme, le ragazze, e ti posso dire il giorno… perché me lo ricordo, sai? È stato un giorno preciso”. Un momento felice del film - forse perché riguarda Dorelli -, anche se riassume in pieno quel tocco di nostalgia che percorre quasi tutta l’opera di Avati.
Fra le scene divertenti segnalerei quella in cui al batterista che viaggia in una macchina mutilata di uno sportello viene regalato per il compleanno proprio il suddetto accessorio, e con tanto di fiocco rosso!
Il finale, che vorrebbe essere struggente, in realtà appare alquanto forzato: a fratture personali praticamente risolte, perché i personaggi si perdono di vista? La cosa viene descritta come un inevitabile passaggio della vita, ma in realtà non si capisce perché debba essere necessariamente così. Il “non so più niente di loro”, qui sembra più che altro un pretesto per creare nello spettatore meno smaliziato una certa commozione. Ma al di là dei  luoghi comuni, le amicizie eterne esistono. Magari si ridimensionano col tempo, ma spesso sopravvivono. Il fare apparire come significativa l’esperienza accaduta a questo ragazzo, la trovo una scelta ardita e un po’ furba.
Di conseguenza trovo ingenua anche la metafora della stella che si avvicina alla terra per poi sparire nello spazio. Io la suddetta scena la troverei significativa in un altro senso: facendo vedere una stella che si muove nell’universo, il regista sembra volere ‘universalizzare’ quello che in realtà è il suo personale mondo emotivo. In tante altre storie avatiane forse non sarebbe sembrata fuoriluogo, ma qui….
Un’ultima considerazione riguarda la collocazione storica della storia: sembra di vedere un film ambientato negli anni 50, anche se è chiaro attraverso i dettagli che si è ai giorni nostri.
Forse Avati non riesce più a sfuggire a se stesso, avendo celebrato per troppe volte l’Emilia della prima metà del secolo. Ma ogni regista ha le sue ossessioni…
 
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2005)

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