giovedì 7 marzo 2013

IL MERCANTE DI VENEZIA di Michael Redford

Qui si presupporrebbe la necessità di una doppia chiave di lettura: quella del cinefilo per così dire ‘normale’ e quella dell’appassionato di Shakespeare o delle sue trasposizioni sul grande schermo.
Sfortunatamente, non avendo io sotto mano un appartenente alla seconda categoria a farmi da contraltare, scriverò per chi vorrà accontentarsi del giudizio - per così dire ‘parziale’ - di un cinefilo normale che del drammaturgo inglese conosce francamente solo l’indispensabile.
Pertanto nel presente commento il film sarà giudicato più per gli elementi strettamente cinematografici per quelli letterario-teatrali.
Michael Redford ha deciso di fare il suo grande passo abbandonando la leggerezza (non nel senso contenutistico) della poesia di Neruda o gli avventurosi road-movie con Asia Argento per approdare al cinema colto. Come tutti coloro che certe cose non le hanno nel sangue, ne fa venire fuori qualcosa di ostico. Forse la causa della indubbia pesantezza della prima ora di proiezione è da ricercarsi nell’eccessiva puntigliosità con cui si è voluto rappresentare questo “Il mercante di Venezia”, in cui Al Pacino disimpegna l’unico personaggio le cui parole si seguono non solo senza colpi di sonno, ma anche con grande interesse. Certo, Shylock è il protagonista, e, di conseguenza, la storia ruota intorno a lui, ma io credo che il merito sia dell’espressività e dello sguardo - ora rabbioso ora sottilmente ironico - del suo interprete, se riesce da solo a reggere sulle sue spalle un film che altrimenti sarebbe poco più che descrittivo.
Non voglio togliere nulla a Jeremy Irons, la cui sofferta e pacata interpretazione del mercante non è da meno di quella di Pacino; ma il tono necessariamente sommesso della sua prova, da solo, non sarebbe stato in grado di dare la ‘sferzata’ indispensabile al film.
Pacino a volte strafà come sempre, ma in questa occasione sembra che sia il suo stesso personaggio a chiederglielo. Io, poi, sono dell’idea che quando un attore fa quello che ama davvero fare, anche nei casi in cui offre una prestazione tecnicamente pari a quella di un altro, trasmette all’inconscio dello spettatore la convinzione con cui fa la cosa. E tutti sanno quanto Al Pacino ami Shakespeare, al punto di ribellarsi palesemente, all’inizio del suo Riccardo III, all’idea tutta inglese che gli americani non siano in grado di ‘fare’ Shakespeare, e di come questo ostracismo abbia, col tempo, creato un vero complesso negli attori del suo Paese. Pur di poter interpretare Il mercante, l’attore ha accettato ‘solo’ 2 milioni di dollari contro il suo abituale compenso di 20, dando a Edwige Fenech e Luciano Martino (vituperati in passato anche se hanno realizzato ottimi gialli) la possibilità di giganteggiare con questa produzione. Gli si deve perdonare dunque l’immodestia di frasi tipo: “Shakespeare sarebbe fiero del mio Shylock”. E poi, può anche darsi che abbia ragione lui.
La storia più o meno si sa, e non va giudicata di per sé nella sua validità, in quanto tutt’uno con la scrittura o con le interpretazioni che se ne danno in scena. Non potrebbe essere altrimenti anche non si trattasse di Shakespeare, in quanto un testo di mezzo millennio fa non andrebbe comunque giudicato col metro odierno. Per l’epoca in cui fu scritto, comunque, è noto che sia stato un atto di coraggio, in quanto l’antisemitismo non era una goccia nel mare come al giorno d’oggi.
L’usuraio (per necessità) Shylock è stanco delle continue umiliazioni a cui è sottoposto in quanto discendente della stirpe “deicida” ebraica, e sceglie di compiere una crudelissima vendetta nei confronti di uno dei suoi più assidui vessatori, quando questi gli chiede un prestito che non potrà restituire. Il denaro di Shylock sarà utile a un giovane per raggiungere l’amata Porzia, ma al mercante antisemita costerà il pieno assolvimento di un contratto particolare da lui stesso accettato: una libbra della sua carne estratta dalla zona sotto il cuore. L’operazione sarà scongiurata al limite della sua messa in pratica da Porzia stessa - intervenuta dietro le false vesti di uomo di legge per aiutare colui che le ha fatto conoscere il suo amato - inventatasi all’improvviso una clausola particolare: “l’estrazione non implicherà il versamento di una goccia di sangue!”. La situazione velocemente si ripiegherà contro l’usuraio che verrà ingabbiato in una serie di sanzioni pesantissime anche dal punto di vista religioso.
Scolpite nella memoria rimarranno le scene della preparazione della vendetta dell’usuraio, in cui questi si vede affilare una spada con voluttà davanti alla folla accorsa; e ancor di più quando punta la spada all’altezza del cuore del mercante. Si tratta di un “pathos” più viscerale che morale, ammesso che si possa fare questa distinzione… Ma fa un buon servizio al film riequilibrandolo dalla (per quanto giustificabile, data la fonte) verbosità iniziale che può causare un calo di attenzione già dopo pochi minuti.  
Tuttavia non si può affatto dire che sia un film fatto male, e non solo per merito di Al Pacino. Redford, di suo, ha avuto scrupolo di rendere sullo schermo una Venezia fascinosa al punto da rendere incomprensibile come certi livori e trame possano essersi svolti in una tale cornice. Ancora oggi Venezia ha un clima particolare dopo l’imbrunire, e questo film la descrive soprattutto nelle sue invernali foschie notturne, dissipate solo dai candelabri che fanno un ottimo gioco di colori riflettendosi nell’acqua. Nessun uso irreale o simbolico del colore, nessun artificio: questa era la Venezia di allora.
Un film per iniziati, dunque? Non necessariamente. Di sicuro un film dal ‘metabolismo lento’, destinato a crescere col tempo nella memoria dello spettatore, soprattutto grazie allo splendore delle riprese che vedono certi inconfondibili scorci notturni riportati all’epoca dare il loro massimo anche se non a livello tridimensionale.

Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2005)


Nessun commento:

Posta un commento