Con i recenti film di Pollack e
Spielberg, il cinema USA ci ha voluto dimostrare che c’è ancora un genere in
cui solo lui riesce ad eccellere: il filone spionistico-politico di matrice più
o meno storica.
L’ultimo di Spielberg ha
indubbiamente una matrice storica molto forte, pur se con gli inevitabili
adattamenti, ma va considerato nella stessa categoria di The Interpreter, uscito
sui nostri schermi pochi mesi fa: si tratta cioè di un film in cui politica
internazionale, azione e conflitti interiori generano affreschi veritieri privi
di freddezza documentaristica o di retorica. Qualcuno potrebbe pensare che la
nobiltà di un film storico sia per definizione più alta di quella di un
racconto realistico ma di pura fiction
come The Interpreter, ma secondo me sarebbe uno sbaglio in quanto gli
intenti sono gli stessi: il voler focalizzare l’attenzione del pubblico verso
realtà in apparenza lontane, e farlo con onestà, senza eccessi di violenza né
edulcorazioni della stessa, così come senza ruffianerie buoniste e retoriche
come quelle a cui ci aveva abituato in passato il buon Spielberg.
Con Munich il regista ha
dato la sua prova più matura di tutta la sua fulgida carriera proprio perché ha
rifuggito dai suddetti elementi spurii che sovente rovinavano il suo cinema,
rendendolo talvolta irritante. Anche gli altri due suoi capolavori assoluti,
ovvero Il Colore Viola e Shindler’s List avevano un surplus di
melassa – nel primo caso – o di retorica – nel finale del secondo caso, che pur
non scalfendo la bellezza di tali film, lasciavano perplessi.
Davvero, per uno spielberghiano
poco convinto come me, questo è il film della rivelazione non in quanto sia il
migliore (per quanto rientrante nella categoria), ma in quanto è il più
equilibrato e corretto.
Il dosaggio degli elementi
documentaristici e di quelli di azione o di dialogo è ineccepibile, e
l’attenzione non cala mai durante le tre ore.
Qui il regista mette in scena
solo gli elementi migliori del suo cinema. In fondo bastava poco: qualche
strizzatina d’occhio in meno e arrivava alla perfezione. Ora ci è arrivato.
Una scelta felice è stato
prendere attori non di fama eccessiva (qui in Europa degli attori visti nel
film sono noti solo Mathieu Kassovitz e Valeria Bruni Tedeschi), forse per
sottolineare la differenza di intenti che corre tra il suo filone serio e
quello divistico-spettacolare del suo penultimo film (La guerra dei Mondi,
con Tom Cruise). Questa sua eterna schizofrenia tra i giocattoloni e i film
importanti e di grande respiro sarebbe un aspetto interessante da analizzare
nella filosofia del regista: uno come lui se fa certe scelte non è certo perché
“piegato” dalle majors o dal bisogno di incassare…
La storia non si incentra sul
tragico fatto di cronaca accaduto agli sportivi israeliani alle Olimpiadi di
Monaco nel ’72, ma su quel che accadde dopo: la ritorsione di un gruppo
fintamente indipendente ai danni degli 11 terroristi di Settembre Nero. Questo
manipolo di vendicatori è super-organizzato e supervisionato dal Mussad, ma
deve comprare a caro prezzo ogni piccolo dettaglio extra, accettare compromessi
da semisconosciuti che lavorano per tutti e per nessuno. Oltre, naturalmente, a
far spendere moltissimo e a mettere a rischio la propria vita e quella dei
familiari.
La vicenda è vista attraverso gli
occhi di Avner (l’attore australiano Eric Bana, azzeccatissimo), il quale,
molto abile a conquistare la fiducia di chiunque, col tempo scopre di essere
lui a non doversi fidare di nessuno (ma proprio nessuno) in un crescendo
continuo di paranoia e sospetto.
Fra gli interpreti, quasi tutti
maschili, oltre il bravo Bana, particolarmente carismatico è Daniel Craig, che
impersona il sanguigno Steve, sempre trattenuto dai compagni dal manifestare
gesti eccessivamente impulsivi e individuali.
Nel film brulicano le scene
memorabili, ma per ragioni di spazio evidenzio solo le due più coinvolgenti: la
prima è quando il capo del team si accorge che al telefono manomesso della
vittima designata ha appena risposto non l’uomo ma sua figlia piccola, e corre
freneticamente verso il resto del gruppo per fermare sul nascere l’esplosione
che sarebbe stata generata da un contatto studiato dal “bombarolo” Kassovitz.
Il suo tentativo disperato risulterà fruttuoso, e da allo spettatore un brivido
da manuale. La seconda scena che voglio segnalare è - per intero - quella che
vede Avner mettersi a rischio stabilendosi in una stanza d’albergo a fianco di
quella dell’arabo da eliminare sempre tramite esplosione (“l’esplosione è meno sicura, ma fa più clamore”, si recita
all’inizio del film). In tale frangente, oltre al protagonista, viene messa a
serio rischio anche un’ignara coppia di turisti svedesi che si trovavano
all’altro fianco del palestinese.
L’esplosione distruggerà gran parte dell’albergo in una scena
particolarmente emozionante, anch’essa senza vittime innocenti. Certamente non
sarà sempre così e le vittime innocenti fioccheranno, ed il team stesso subirà
gravi perdite fino alla conclusione della sua attività.
Il finale è ambiguo: Avner si incontra a Brooklyn col
capo del gruppo e mette in discussione tutto l’operato compresa l’onestà della
loro stessa organizzazione. Le risposte che ottiene suonano sibilline, tra il
cristallino e il ricattatorio. Come interpretarle? Avner conclude il suo
dialogo con una risposta sarcastica e arrendevole insieme (“Ti invito molto volentieri a casa mia per
cena questa sera. Veniamo dalla stessa stirpe!”), concependo come qualcosa
di condizionante il suo essere ebreo. Ma il capo, dopo un moto di orgoglio,
capisce e si allontana. Questo finale, oggettivamente, non vuole dare giudizi e
si limita a far esprimere le posizioni dei due.
Ma i finali indefiniti scontentano sempre chi ha
posizioni troppo marcate, ed è forse stata la semplice ombra del sospetto nei
confronti del Mussad a fare accusare il film come filopalestinese dalle
associazioni ebraiche USA.
Sorvolando sulla risposta del
regista (“Morirei per Israele”…ma per
favore!), non è facile inquadrare il film come antisraeliano.
Forse il dubbio che si insinua in
Avner nel finale serve a bilanciare anzi l’impressione che il film sia troppo
orientato a favore della causa israeliana. In ogni caso non si può chiedere a
un regista la spersonalizzazione completa da una vicenda – vera – che riguarda
la sua Storia. Ciò comporterebbe la freddezza dell’opera. Ma a maggior ragione non
lo si può accusare di essere traditore solo perché ha voluto mostrare i dubbi
all’interno del Mussad e le idee opposte alle sue dal punto di vista di chi le
vive.
Altra critica opinabile mossa
oltreoceano: più che un film politico sembra un thriller, forse a causa delle
forti dosi di suspense che riserva. Il sottoscritto ritiene che un film debba
diversificarsi da un documentario, e d’altra parte anche il pluripremiato Titanic
raccontava una tragedia vera con le armi dello spettacolo. La cosiddetta “spettacolarizzazione”
delle vere tragedie, se fatta non a biechi fini economici, è un modo efficace
per rinverdire un ricordo lontano in modo coinvolgente.
Munich meriterebbe di
essere il pigliatutto agli Oscar di quest’anno. Ma non è facile a Hollywood scontentare
le associazioni ebraiche.
Tratto dal romanzo “Vengeance - The True Story
of an Israeli-Counter-Terrorist Team” di George Jonas.
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2006)
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2006)
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