sabato 9 marzo 2013

MUNICH di Steven Spielberg

Con i recenti film di Pollack e Spielberg, il cinema USA ci ha voluto dimostrare che c’è ancora un genere in cui solo lui riesce ad eccellere: il filone spionistico-politico di matrice più o meno storica.
L’ultimo di Spielberg ha indubbiamente una matrice storica molto forte, pur se con gli inevitabili adattamenti, ma va considerato nella stessa categoria di The Interpreter, uscito sui nostri schermi pochi mesi fa: si tratta cioè di un film in cui politica internazionale, azione e conflitti interiori generano affreschi veritieri privi di freddezza documentaristica o di retorica. Qualcuno potrebbe pensare che la nobiltà di un film storico sia per definizione più alta di quella di un racconto  realistico ma di pura fiction come The Interpreter, ma secondo me sarebbe uno sbaglio in quanto gli intenti sono gli stessi: il voler focalizzare l’attenzione del pubblico verso realtà in apparenza lontane, e farlo con onestà, senza eccessi di violenza né edulcorazioni della stessa, così come senza ruffianerie buoniste e retoriche come quelle a cui ci aveva abituato in passato il buon Spielberg.
Con Munich il regista ha dato la sua prova più matura di tutta la sua fulgida carriera proprio perché ha rifuggito dai suddetti elementi spurii che sovente rovinavano il suo cinema, rendendolo talvolta irritante. Anche gli altri due suoi capolavori assoluti, ovvero Il Colore Viola e Shindler’s List avevano un surplus di melassa – nel primo caso – o di retorica – nel finale del secondo caso, che pur non scalfendo la bellezza di tali film, lasciavano perplessi.
Davvero, per uno spielberghiano poco convinto come me, questo è il film della rivelazione non in quanto sia il migliore (per quanto rientrante nella categoria), ma in quanto è il più equilibrato e corretto.
Il dosaggio degli elementi documentaristici e di quelli di azione o di dialogo è ineccepibile, e l’attenzione non cala mai durante le tre ore.
Qui il regista mette in scena solo gli elementi migliori del suo cinema. In fondo bastava poco: qualche strizzatina d’occhio in meno e arrivava alla perfezione. Ora ci è arrivato.
 
Una scelta felice è stato prendere attori non di fama eccessiva (qui in Europa degli attori visti nel film sono noti solo Mathieu Kassovitz e Valeria Bruni Tedeschi), forse per sottolineare la differenza di intenti che corre tra il suo filone serio e quello divistico-spettacolare del suo penultimo film (La guerra dei Mondi, con Tom Cruise). Questa sua eterna schizofrenia tra i giocattoloni e i film importanti e di grande respiro sarebbe un aspetto interessante da analizzare nella filosofia del regista: uno come lui se fa certe scelte non è certo perché “piegato” dalle majors o dal bisogno di incassare…
 
La storia non si incentra sul tragico fatto di cronaca accaduto agli sportivi israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel ’72, ma su quel che accadde dopo: la ritorsione di un gruppo fintamente indipendente ai danni degli 11 terroristi di Settembre Nero. Questo manipolo di vendicatori è super-organizzato e supervisionato dal Mussad, ma deve comprare a caro prezzo ogni piccolo dettaglio extra, accettare compromessi da semisconosciuti che lavorano per tutti e per nessuno. Oltre, naturalmente, a far spendere moltissimo e a mettere a rischio la propria vita e quella dei familiari.
La vicenda è vista attraverso gli occhi di Avner (l’attore australiano Eric Bana, azzeccatissimo), il quale, molto abile a conquistare la fiducia di chiunque, col tempo scopre di essere lui a non doversi fidare di nessuno (ma proprio nessuno) in un crescendo continuo di paranoia e sospetto.   
Fra gli interpreti, quasi tutti maschili, oltre il bravo Bana, particolarmente carismatico è Daniel Craig, che impersona il sanguigno Steve, sempre trattenuto dai compagni dal manifestare gesti eccessivamente impulsivi e individuali.
Nel film brulicano le scene memorabili, ma per ragioni di spazio evidenzio solo le due più coinvolgenti: la prima è quando il capo del team si accorge che al telefono manomesso della vittima designata ha appena risposto non l’uomo ma sua figlia piccola, e corre freneticamente verso il resto del gruppo per fermare sul nascere l’esplosione che sarebbe stata generata da un contatto studiato dal “bombarolo” Kassovitz. Il suo tentativo disperato risulterà fruttuoso, e da allo spettatore un brivido da manuale. La seconda scena che voglio segnalare è - per intero - quella che vede Avner mettersi a rischio stabilendosi in una stanza d’albergo a fianco di quella dell’arabo da eliminare sempre tramite esplosione (“l’esplosione è meno sicura, ma fa più clamore”, si recita all’inizio del film). In tale frangente, oltre al protagonista, viene messa a serio rischio anche un’ignara coppia di turisti svedesi che si trovavano all’altro fianco del palestinese.  L’esplosione distruggerà gran parte dell’albergo in una scena particolarmente emozionante, anch’essa senza vittime innocenti. Certamente non sarà sempre così e le vittime innocenti fioccheranno, ed il team stesso subirà gravi perdite fino alla conclusione della sua attività.
 
Il finale è ambiguo: Avner si incontra a Brooklyn col capo del gruppo e mette in discussione tutto l’operato compresa l’onestà della loro stessa organizzazione. Le risposte che ottiene suonano sibilline, tra il cristallino e il ricattatorio. Come interpretarle? Avner conclude il suo dialogo con una risposta sarcastica e arrendevole insieme (“Ti invito molto volentieri a casa mia per cena questa sera. Veniamo dalla stessa stirpe!”), concependo come qualcosa di condizionante il suo essere ebreo. Ma il capo, dopo un moto di orgoglio, capisce e si allontana. Questo finale, oggettivamente, non vuole dare giudizi e si limita a far esprimere le posizioni dei due.
Ma i finali indefiniti scontentano sempre chi ha posizioni troppo marcate, ed è forse stata la semplice ombra del sospetto nei confronti del Mussad a fare accusare il film come filopalestinese dalle associazioni ebraiche USA. 
Sorvolando sulla risposta del regista (“Morirei per Israele”…ma per favore!), non è facile inquadrare il film come antisraeliano.
Forse il dubbio che si insinua in Avner nel finale serve a bilanciare anzi l’impressione che il film sia troppo orientato a favore della causa israeliana. In ogni caso non si può chiedere a un regista la spersonalizzazione completa da una vicenda – vera – che riguarda la sua Storia. Ciò comporterebbe la freddezza dell’opera. Ma a maggior ragione non lo si può accusare di essere traditore solo perché ha voluto mostrare i dubbi all’interno del Mussad e le idee opposte alle sue dal punto di vista di chi le vive.
 
Altra critica opinabile mossa oltreoceano: più che un film politico sembra un thriller, forse a causa delle forti dosi di suspense che riserva. Il sottoscritto ritiene che un film debba diversificarsi da un documentario, e d’altra parte anche il pluripremiato Titanic raccontava una tragedia vera con le armi dello spettacolo. La cosiddetta “spettacolarizzazione” delle vere tragedie, se fatta non a biechi fini economici, è un modo efficace per rinverdire un ricordo lontano in modo coinvolgente.
Munich meriterebbe di essere il pigliatutto agli Oscar di quest’anno. Ma non è facile a Hollywood scontentare le associazioni ebraiche.
 
Tratto dal romanzo “Vengeance - The True Story of an Israeli-Counter-Terrorist Team” di George Jonas.

Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2006)

Nessun commento:

Posta un commento