giovedì 7 marzo 2013

MELINDA E MELINDA di Woody Allen

È una rassicurazione che si rinnova di anno in anno, puntuale come un orologio, l’America di Woody Allen. L’immagine del Paese più in vista del mondo è sempre stata strettamente correlata e confusa con quella che quel Paese stesso ha deciso di diffondere. Che è essenzialmente ciò che viene raccontato dai film e che confonde le idee dei più sprovveduti, pronti a credere solo a una Prima Potenza satura di gente ossessionata dal pericolo e di avvocati divorzisti sempre più ricchi.. Da un secolo gli USA non possono essere più concepiti senza lo specchio deformante del loro Cinema, a cui noi crediamo come fosse oro colato.
Per questo, se non esistesse Woody Allen, con lui verrebbe a mancare un’idea degli Stati Uniti del tutto diversa e che solo lui porta avanti pedissequamente da anni, senza la paura tipica dei suoi colleghi concittandini (come ad esempio Oliver Stone) di puntare con orgoglio la macchina da presa su una delle zone ritenute forse troppo turistiche, snob o da cartolina di tutto il loro immenso territorio: New York. Dopo avere rappresentato, giustamente senza pudori, la NY degradata e violenta degli anni ’70 e ‘80, i cineasti hanno iniziato a trascurare quella zona e a concepire la loro grande Nazione quasi come fosse solo un’insieme di vasti deserti o di piccole zone di provincia con un centinaio di abitanti, ritenute, a quanto pare, drammaturgicamente più interessanti delle luci della Grande Mela. 
Quindi non stupisca se il clima della Est Side di Manhattan, i ristoranti francesi e le mostre d’arte coi cocktail in mano da sempre rappresentati da Allen non stancano mai il pubblico europeo, che  ignora l’idea che l’America ha di sé e non disdegna affatto la visione del più celebre skyline del mondo. Perché è come vedersi piombare dall’alto ogni 12 mesi una delle realtà comunque più piacevoli dello Zio Sam, che (ambienti superagiati a parte) ci fa sentire gli americani più vicini al nostro modo di essere. Se non altro perché qui non li vediamo combattere per salvare vite, scoprire vaccini o coinvolti in scandali o guerre, ma semplicemente alle prese con problemi di fedeltà o di nevrosi, certo profonde, ma tutto sommato ben gestite a base di psicofarmaci e battute fulminanti. Decisamente confortante.
Ad alcuni possono sembrare superficiali questi personaggi autoreferenziali sempre afflitti soltanto da arrovellamenti sentimentali; ma in verità sono proprio questi gli statunitensi che tutti noi vorremmo incontrare. E che, se non altro per il loro spirito, le loro debolezze romantiche e i loro interessi culturali, vedremmo bene come rappresentanti credibili di un’America che ancora tende ad esaltare quasi esclusivamente personaggi muscolari ed eroi integerrimi ma senza sottigliezze. Allen è l’antitesi di tutto questo. Ne è l’alternativa.

Questo soprattutto per mettere a tacere coloro che bollano il regista di topoi e di ripetitività. Ogni autore ha un suo stile riconoscibile, ed è un bene che non possa staccarsene del tutto, perché è esattamente ciò che ne fa emergere la personalità. E diventa divertente per lo spettatore notare quali nuovi svincoli siano stati scelti per rendere ancora una volta nuova una storia con i soliti tic sul solito sfondo.
Questa continuità, poi - dovuta forse anche al fatto che con un film all’anno non ci si può staccare del tutto dalla storia precedente - nel caso del nostro più che una conseguenza del proprio modus sembra frutto di una scelta precisa. Come per siglare un appuntamento fisso col suo pubblico, il pubblico che lui ha scelto di avere. In passato, infatti ha dimostrato di potere portare avanti anche altri stili, dal demenziale al ‘bergmaniano’, ma pare abbia individuato una strada personale nella commedia intelligente con cui pare dirci ‘chi mi ama mi segua’, senza rincorrere ogni tipo di pubblico possibile né paura di essere imprigionato in un genere (anche perché, come già evidenziato, si tratta di un genere tutto suo…).
E ancora, diciamola tutta: in uno stile scelto non è in fondo più difficile imbastire storie diverse delegando l’originalità a elementi apparentemente secondari, piuttosto che creare qualcosa di totalmente nuovo?
Un esempio di originalità si ha proprio all’inizio di MELINDA E MELINDA: il film parte da un assunto piuttosto bizzarro, che presuppone l’inesistenza della storia. Non solo per noi spettatori che dal mondo reale sappiamo di stare guardando null’altro che un film, ma anche all’interno del film stesso, la cui la trama viene raccontata da due scrittori dalla vena opposta che intorno a un tavolo (alla lontana la scena richiama l’inizio di Broadway Danny Rose) cercano di dare possibili sviluppi a una storia di cui hanno sentito parlare. Uno dei due scrive drammi; l’altro, invece, commedie, pur sostenendo che la commedia altro non sia che un rifugio dai drammi, secondo l’equazione: commedia=evasione, tragedia=confronto a sottolinearne le diverse funzioni. Dapprima imbastiscono alternative, poi costruiranno le storie di Melinda a turno quasi in modo unitario, ora con il tocco tragico dell’uno, ora con l’effervescenza dell’altro. E, intervallando le scene parlando tra di loro, offrono al pubblico delle involontarie introduzioni su quale sarà il tono della sequenza successiva. Il match lo vincerà idealmente l’uomo della commedia, forse perché comunque coltiva  dentro di sé quegli elementi di pessimismo che rendono qualunque commedia bilanciata (e poi, si sa, il pensare sempre ai drammi ti fa sviluppare la fantasia per risolverli!).
Prevale la commedia non tanto per le vicende personali della tribolata protagonista ma per il modo in cui esse vengono narrate, soprattutto grazie ai personaggi a lei comprimari, in primis due suoi amici - interpretati da Chloe Sevigny, già bravissima in The last days of Disco e da tale Will Ferrell, per l’occasione alter ego del regista - che la ospitano. Ma tutto il film è molto corale.
 
Melinda (Radha Mitchell) è la classica donna vissuta, dalla (de)pressione alta e dalle indecisioni titaniche che piomba a casa di amici o parenti in cerca di rifugio, consolazione, whisky, consigli e quant’altro. E naturalmente nei momenti più sbagliati. È questo il prologo da cui i due narratori tentano di diversificare la storia (e con lo scopo recondito di far capire allo spettatore che il proprio spirito condiziona le situazioni anche nella percezione positiva/negativa).
Senza distinguere tra i due filoni (sarebbe un’operazione ad alto rischio di non chiarezza), cercherò ora di sintetizzare il film scegliendo le situazioni che ritengo più significative.
Dapprima i problemi della donna sono le conseguenze di un divorzio che lei stessa ha causato, e per il quale ha perso, col coniuge, anche amante e figli. Poi, in uno dei tanti tentativi di un’amica di farle avere una nuova relazione, conosce un raffinato pianista (l’unico nero - per giunta di Harlem - in un film di Allen dai tempi dello spermatozoo fuoriposto di Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso e non avete mai osato chiedere), con cui imbastisce una relazione che dura finché lei gli rivela di avere in realtà ucciso il marito, notizia che spinge il rettissimo pianista a preferirle l’amica. Il tormentato Will Farrell cerca in tutti modi di conquistarla perché attratto dalle donne emotivamente disordinate (autocitazione: il Sidney Pollack di Mariti e mogli era attratto dai ‘casi clinici’).
Si passerà ad altre delusioni non solo per Melinda ma anche per gli amici artisti che la ospitano e frequentano, fino ad una conclusione semplicistica ma accettabile: a quel punto lo spettatore è già pienamente appagato.
Fin dall’inizio la prevalenza della commedia è quasi continua, lasciando uno spazio più che esiguo agli elementi del dramma: giusto la dolorosa confessione di Melinda al suo nuovo uomo riguardo al crimine commesso, un tentato suicidio e poco altro. Lo stesso ‘narratore drammatico’ sceglie di non calcare troppo la mano, forse mosso a simpatia per questa donna che vorrebbe smettere di pagare per i suoi (gravi) errori del passato.  Il fatto che non ci sia un vero alternarsi di stili fa sì che il film non risulti disomogeneo come lasciavano intendere le premesse.

Come vedete, i temi non sono nuovi. Ma - lo capirete se vedrete il film - si tratta del classico caso in cui il tutto supera di gran lunga la somma degli elementi.
C’è il consueto repertorio di battute tipiche, due delle quali sono state scelte per i trailer e quindi sono già note (“Vorrei tanto fare l’amore con una donna incinta” “Non ti aspettare nulla: mi è stato detto che è come farlo con una cicciona qualsiasi”, oppure: “Certo che comunichiamo! Possiamo non parlarne?”). Ma la mia preferita non è stata divulgata ai più: “Se tu solo immaginassi la voglia che ho di fare del sesso con te, accetteresti, se non altro, per pura pietà!”; chi  non ha pensato di dirlo almeno una volta nella vita - magari ai tempi della scuola - tenendosi poi a freno per dignità?
Fra le gags per così dire ‘fisiche’, ricordo con divertimento quella di Ferrell che rimane impigliato con l’orlo della vestaglia alla porta dietro la quale stava origliando, dopo che questa era stata aperta e poi richiusa dal sospettoso inquilino. È una scena tipicamente alleniana, ed è un peccato che il regista non abbia voluto interpretare questo personaggio così palesemente ritagliato su sé stesso. È successo in Celebrity ed ora in questo film. Capisco che alla sua età si senta a disagio a interpretare ancora certi ruoli… ma indubbiamente, per quanto si faccia imitare spudoratamente dagli attori di turno, si sente la mancanza della sua mimica facciale e del suo aspetto da povero disgraziato!
 
Alla fine resta l’impressione che la trovata dei due contraltari che inventano il film raccontandolo, sia frutto di uno scrupolo eccessivo di Allen a voler diversificare il fondamento di una storia che non ne avrebbe avuto bisogno, funzionando da sola - in una qualsiasi delle due versioni - come ‘summa’ della sua idea di commedia consolidata negli anni e a lui congeniale. E che il senso del film non sia da cercarsi in questo strombazzato escamotage, ma soprattutto in quello che alla fine emerge dalle parole di narratori e personaggi: questa volta Allen sembra dirci che è giusto lasciarsi travolgere dagli eventi. Un elogio alla volubilità, se vogliamo, perché “la vita è breve”, come viene ripetuto più volte, e quindi vale la pena di non perdere le occasioni che ci si presentano solo per stare dietro a individui troppo problematici.
Non un Woody più cinico, ma di sicuro più disincantato rispetto ai tempi idealisti di Broadway Danny Rose, in cui stigmatizzava chi non pondera e per tornaconto abbandona alla prima occasione le persone da cui aveva ricevuto aiuti in passato. Sicuro, a differenza dell’agente del suddetto film, Melinda per chi le sta intorno ha fatto poco o niente, ma Danny Rose era chiamato ad aiutare per  natura insita del suo mestiere… quindi il paragone può ancora reggere, e la disparità di trattamento resta evidente.
Non so se questo cambiamento di rotta dipenda da situazioni capitate nella vita privata del regista negli ultimi anni, ma da questo film emerge un chiaro invito all’autoassoluzione rispetto alle persone come Melinda, che “Diciamoci la verità…”, come più o meno dice un personaggio, “è una di quelle persone che avranno sempre bisogno di aiuto. E noi dobbiamo continuare a vivere”.
Altra novità - questa volta di tipo professionale - è la scelta, secondo il mio parere felice, di non chiamare grossi nomi a cui fare interpretare questo film, lasciando pieno spazio - non figurando neppure il regista stesso - a volti nuovi bisognosi di notorietà. Solo Tarantino era stato così anticonformista riguardo ai cast, mettendo come protagonisti dei suoi film personalità dimenticate come rispettivamente John Travolta in Pulp fiction (ancora da filmaker semisconosciuto), e Pam Grier in Jackie Brown (qui già da regista affermato, ed è stupefacente!), nonché Keith Carradine come comprimario nel recente Kill Bill.
Certo, facendo risparmiare ai produttori sui volti, Allen avrà potuto riversare parte del budget (altrimenti destinato ai divi) ad altri aspetti più tecnici del film, ma con un nome noto avrebbe di sicuro incassato molto di più. Mi stupì molto anni fa, quando, suppongo per motivi di botteghino, prese nel cast di Accordi e disaccordi Sean Penn. Niente da dire sul talento dell’attore… ma cosa c’entrava un tipo come lui col mondo elegante e sarcastico di Woody Allen?
Per concludere, vorrei far notare una cosa a chi sostiene che il regista di Manhattan sia invecchiato male: alla fine della proiezione (tra l’altro pomeridiana) della sala di Bologna in cui ho visto il film, una grossa parte degli spettatori ha applaudito.
L’ultima volta che ho visto una cosa del genere, e non alla presenza del regista, è stato alla fine de Il postino con Troisi. Ma quell’omaggio era dovuto soprattutto alla prematura scomparsa dell’attore. Vogliamo dire che sia davvero un caso?

Giovanni Modica (recensione fatta nel marzo del 2005)

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