Questo film è stato presentato
come la storia di un conflitto tra padre e figlio e dei rispettivi ruoli che
col tempo si scambiano, ma non è esattamente cosi. O perlomeno tale descrizione
è riduttiva.
Certo, l’impossibilità di liberarsi dalla strada in cui
si è stati incanalati dai padri riassume in qualche modo anche questo concetto,
ma nel film si trova soprattutto la rabbia e lo smarrimento per non poter
vivere per le cose per cui si è nati, e questo è un discorso che va oltre: si
può parlare di colpe dei genitori come di zone di città o delle facce che ci si
porta dietro, e non intendo necessariamente nel senso di periferie e razze.
Parlo di una delle parole più abusate della storia umana, ovvero il destino;
concetto fumoso finché si vuole, ma funzionale a descrivere i classici disagi
creati dalle altrettanto classiche dicotomie ‘realtà vs. sogno’ e ‘praticità
vs. arte’.
Qui queste dicotomie sono estremizzate, con l’evidente
intenzione di sottolinearne l’ingiustizia, in una situazione in cui al sogno
dell’arte (qui pianistica) si contrappone addirittura il crimine; per il
protagonista è l’unico modo per sopravvivere in quanto rappresenta la strada
spianatagli dal padre fin dalla giovanissima età a scapito di qualsiasi sua
lecita velleità.
È anche un film sull’ineluttabilità
della natura umana, destinata a riaffiorare all’improvviso negli individui
nelle sue varie forme anche a distanza di moltissimi anni, semplicemente dietro
un casualissimo imput.
Dopo molti anni, infatti, il
ventottenne Thomas sente rinascere in sé il germe dell’istinto artistico
ereditato dalla sfortunata madre riappassionandosi al pianoforte. Questo fra la
prevedibile incomprensione di TUTTI (essendo morta la madre) coloro che lo
attorniano, dal padre ai “colleghi” che praticano il racket immobiliare con
loro. Di gente dalle attività normali intorno a lui non ce n’è, e i suoi
praticissimi interlocutori non mettono in discussione il loro stile di vita e
di sicuro non hanno nessun richiamo né comprensione per “quella cazzata del
pianoforte” che distrae sempre più il giovane dagli affari.
Non appena Thomas cerca
seriamente di allontanarsi da ciò che gli dà da vivere per dedicarsi agli studi
musicali, il padre si mette in qualche serio guaio da cui lui è chiamato a
salvarlo.
Così come i suoi amici non perdono
occasione per richiamarlo all’ordine (ma forse è meglio dire… disordine) del
loro bieco lavoro.
Si alternano così le scene di
affari criminosi con le sequenze degli studi di pianoforte impartiti al
protagonista da una povera insegnante cinese su cui lui sfoga tutto il suo
nervosismo.
A proposito di questo, il regista
Jacques Audiart ha voluto disseminare per tutto il film frammenti di un aspetto tipico della società di oggi,
ovvero il pullulare di immigrati di tutte le razze raramente integrati nel Paese
che li ospita. Una volta tanto i cosiddetti “extracomunitari” non vengono
dipinti solo come povere vittime ma come esseri umani con virtù e bassezze,
tramite rappresentazioni che qualcuno potrebbe definire stereotipate ma che in
realtà mostrano delle tendenze ben definite - salvo consistenti eccezioni -
all’interno delle varie etnie. Ecco quindi i cinesi che non parlano la lingua
del posto (come l’insegnante di piano del nostro), spietati affaristi russi
che, oltre a non parlare le lingue, non si fermano davanti a nulla, e povere
famiglie africane costrette dalla povertà a occupare le case abusivamente.
Con ciò non voglio dire che Tutti
i battiti del mio cuore sia un film sociale ed impegnato, ma offre nel suo
piccolo un veritiero affresco della Francia di oggi.
Di sicuro si può definire un film
psicologico, tra il drammatico e il thriller, assolutamente non di pura
distrazione.
Ma torniamo alla trama: finché
l’anziano genitore non esce dalla scena, Thomas non riesce -nonostante i suoi
sforzi - a liberare la mente dalla tensione ed esprimere così le sue capacità
musicali, cosicché lo vediamo bocciare all’esame per cui si era tanto preparato
a causa del fardello emotivo che si porta dentro non del tutto consciamente.
Solo attraverso il dramma
familiare nascerà la sua salvezza come uomo e come artista, ma quando tutto
sembra risolversi ecco riaffiorare il suo destino tramite una figura del
passato di cui sente di volersi vendicare.
Significativa l’ultima scena, che
lo vede in veste di musicista ma macchiato del sangue della sua (pur parziale)
vendetta, simbolo del passato da cui non ci si può mai liberare totalmente.
Il regista Jacques Audiard ha di
nuovo scelto, dopo il suo Sulle mie labbra del 2001, un codice narrativo
tradizionale e al di fuori delle mode, con scene ed inquadrature precise e
descrittive, del tutto prive di trovate visive ad effetto. Non siamo
all’asciuttezza del neorealismo, ma poco ci manca.
Qui conta non l’immagine, la
fotografia o gli ambienti ma i dialoghi ed il montaggio, equibratissimo tra
scena e scena. L’equilibrio del montaggio sembrerebbe una cosa elementare; ma
in realtà non lo è affatto, ed i più attenti avranno notato come molti registi
- soprattutto giovani - pur essendo dei virtuosi dell’immagine non sanno usare
i tempi (L’impero dei lupi, Bluebarry… tanto per non fare
titoli).
Vorrei chiudere la recensione con
un discorso a latere che ritengo meriti una riflessione. Questo film è uno dei
tanti remake che vengono prodotti negli ultimi anni. L’originale, americano e
con un giovane Harvey Keitel, si chiamava Fingers (James Toback, 1978)
ed apparteneva alla coda della breve stagione della “new Hollywood” nata alla
fine dei ’60 e conclusasi precocemente a causa di una certa perplessità del
pubblico di tutto il mondo, che riteneva questi film troppo realisti e vicini
al tocco amaro europeo che alla tranquillizzante tradizione USA.
Bene, io non sapevo
dell’esistenza di questo film ed ora ho la curiosità di vederlo. Com’è successo
a molti per la serie Ring.
Un remake può significare il
rilancio di un’opera dimenticata come questa o può servire a rinverdire un
mito, eppure è un fenomeno disprezzato dai puristi.
Non sono quindi del tutto
d’accordo con registi come Dario Argento, il quale si ostina (pur con qualche
ragione) a non concedere i remake USA di Suspiria e Profondo rosso;
soprattutto quando - come in questi casi - gli originali non corrono il rischio
di essere superati.
Il titolo originale “De battre mon coeur s’est arrete” è preso da un
verso della canzone ‘La fille du pére
Noel’ di Jacques Dutronc
Giovanni Modica (recensione fatta nel novembre del 2005)
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