venerdì 8 marzo 2013

TUTTI I BATTITI DEL MIO CUORE di Jacques Audiart

Questo film è stato presentato come la storia di un conflitto tra padre e figlio e dei rispettivi ruoli che col tempo si scambiano, ma non è esattamente cosi. O perlomeno tale descrizione è riduttiva.
Certo, l’impossibilità di liberarsi dalla strada in cui si è stati incanalati dai padri riassume in qualche modo anche questo concetto, ma nel film si trova soprattutto la rabbia e lo smarrimento per non poter vivere per le cose per cui si è nati, e questo è un discorso che va oltre: si può parlare di colpe dei genitori come di zone di città o delle facce che ci si porta dietro, e non intendo necessariamente nel senso di periferie e razze. Parlo di una delle parole più abusate della storia umana, ovvero il destino; concetto fumoso finché si vuole, ma funzionale a descrivere i classici disagi creati dalle altrettanto classiche dicotomie ‘realtà vs. sogno’ e ‘praticità vs. arte’.
Qui queste dicotomie sono estremizzate, con l’evidente intenzione di sottolinearne l’ingiustizia, in una situazione in cui al sogno dell’arte (qui pianistica) si contrappone addirittura il crimine; per il protagonista è l’unico modo per sopravvivere in quanto rappresenta la strada spianatagli dal padre fin dalla giovanissima età a scapito di qualsiasi sua lecita velleità.
È anche un film sull’ineluttabilità della natura umana, destinata a riaffiorare all’improvviso negli individui nelle sue varie forme anche a distanza di moltissimi anni, semplicemente dietro un casualissimo imput.
Dopo molti anni, infatti, il ventottenne Thomas sente rinascere in sé il germe dell’istinto artistico ereditato dalla sfortunata madre riappassionandosi al pianoforte. Questo fra la prevedibile incomprensione di TUTTI (essendo morta la madre) coloro che lo attorniano, dal padre ai “colleghi” che praticano il racket immobiliare con loro. Di gente dalle attività normali intorno a lui non ce n’è, e i suoi praticissimi interlocutori non mettono in discussione il loro stile di vita e di sicuro non hanno nessun richiamo né comprensione per “quella cazzata del pianoforte” che distrae sempre più il giovane dagli affari.
Non appena Thomas cerca seriamente di allontanarsi da ciò che gli dà da vivere per dedicarsi agli studi musicali, il padre si mette in qualche serio guaio da cui lui è chiamato a salvarlo.
Così come i suoi amici non perdono occasione per richiamarlo all’ordine (ma forse è meglio dire… disordine) del loro bieco lavoro.

Si alternano così le scene di affari criminosi con le sequenze degli studi di pianoforte impartiti al protagonista da una povera insegnante cinese su cui lui sfoga tutto il suo nervosismo.
A proposito di questo, il regista Jacques Audiart ha voluto disseminare per tutto il film frammenti  di un aspetto tipico della società di oggi, ovvero il pullulare di immigrati di tutte le razze raramente integrati nel Paese che li ospita. Una volta tanto i cosiddetti “extracomunitari” non vengono dipinti solo come povere vittime ma come esseri umani con virtù e bassezze, tramite rappresentazioni che qualcuno potrebbe definire stereotipate ma che in realtà mostrano delle tendenze ben definite - salvo consistenti eccezioni - all’interno delle varie etnie. Ecco quindi i cinesi che non parlano la lingua del posto (come l’insegnante di piano del nostro), spietati affaristi russi che, oltre a non parlare le lingue, non si fermano davanti a nulla, e povere famiglie africane costrette dalla povertà a occupare le case abusivamente.
Con ciò non voglio dire che Tutti i battiti del mio cuore sia un film sociale ed impegnato, ma offre nel suo piccolo un veritiero affresco della Francia di oggi.
Di sicuro si può definire un film psicologico, tra il drammatico e il thriller, assolutamente non di pura distrazione.

Ma torniamo alla trama: finché l’anziano genitore non esce dalla scena, Thomas non riesce -nonostante i suoi sforzi - a liberare la mente dalla tensione ed esprimere così le sue capacità musicali, cosicché lo vediamo bocciare all’esame per cui si era tanto preparato a causa del fardello emotivo che si porta dentro non del tutto consciamente.
Solo attraverso il dramma familiare nascerà la sua salvezza come uomo e come artista, ma quando tutto sembra risolversi ecco riaffiorare il suo destino tramite una figura del passato di cui sente di volersi vendicare.
Significativa l’ultima scena, che lo vede in veste di musicista ma macchiato del sangue della sua (pur parziale) vendetta, simbolo del passato da cui non ci si può mai liberare totalmente.

Il regista Jacques Audiard ha di nuovo scelto, dopo il suo Sulle mie labbra del 2001, un codice narrativo tradizionale e al di fuori delle mode, con scene ed inquadrature precise e descrittive, del tutto prive di trovate visive ad effetto. Non siamo all’asciuttezza del neorealismo, ma poco ci manca.
Qui conta non l’immagine, la fotografia o gli ambienti ma i dialoghi ed il montaggio, equibratissimo tra scena e scena. L’equilibrio del montaggio sembrerebbe una cosa elementare; ma in realtà non lo è affatto, ed i più attenti avranno notato come molti registi - soprattutto giovani - pur essendo dei virtuosi dell’immagine non sanno usare i tempi (L’impero dei lupi, Bluebarry… tanto per non fare titoli).

Vorrei chiudere la recensione con un discorso a latere che ritengo meriti una riflessione. Questo film è uno dei tanti remake che vengono prodotti negli ultimi anni. L’originale, americano e con un giovane Harvey Keitel, si chiamava Fingers (James Toback, 1978) ed apparteneva alla coda della breve stagione della “new Hollywood” nata alla fine dei ’60 e conclusasi precocemente a causa di una certa perplessità del pubblico di tutto il mondo, che riteneva questi film troppo realisti e vicini al tocco amaro europeo che alla tranquillizzante tradizione USA.
Bene, io non sapevo dell’esistenza di questo film ed ora ho la curiosità di vederlo. Com’è successo a molti per la serie Ring.
Un remake può significare il rilancio di un’opera dimenticata come questa o può servire a rinverdire un mito, eppure è un fenomeno disprezzato dai puristi.
Non sono quindi del tutto d’accordo con registi come Dario Argento, il quale si ostina (pur con qualche ragione) a non concedere i remake USA di Suspiria e Profondo rosso; soprattutto quando - come in questi casi - gli originali non corrono il rischio di essere superati.
 
Il titolo originale “De battre mon coeur s’est arrete” è preso da un verso della canzone ‘La fille du pére Noel’ di Jacques Dutronc

Giovanni Modica (recensione fatta nel novembre del 2005)

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