venerdì 8 marzo 2013

INGANNEVOLE È IL CUORE SOPRA OGNI COSA di Asia Argento

Non si può dire che Asia Argento abbia avidità di successo commerciale. Si direbbe davvero che il suo interesse vada più verso la critica, con in più un certo snobismo per nulla velato. Lasciamo perdere il solito discorso se il suo ‘maledettismo’ sia più o meno costruito: non si può dire che il suo film sia stato girato male. La cura nei dettagli, nel suo “Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa” c’è e si vede. Lo scossone ai nervi che voleva dare allo spettatore arriva a segno….
Ma non si capisce dove questo film voglia andare a parare veramente. Le situazioni mostrate sono tante, e a metà proiezione sembra di avere individuato il tema centrale del film in una critica dei gravi danni che può creare un’educazione troppo religiosa e repressiva.
Poi però si torna a rappresentare questa madre dal look alla Curtney Love come qualcosa che va oltre, un personaggio le cui colpe nei confronti del figlio divengono così gravi e pesanti da non essere nemmeno più giustificabili con il problema dell’educazione ricevuta e con le droghe pesanti di cui fa uso. Si tratta di follia manifesta.
Per capire bene questa storia senza redenzione bisognerebbe forse leggere l’omonimo romanzo di J. T. Leroy da cui è stato tratto (ma un film per essere buono deve risultare chiaro anche al semplice spettatore) o interpretarne il titolo. Da quel che sembra vedendo la pellicola, questo titolo indicherebbe una parziale assoluzione della protagonista dalle sue colpe per il fatto che il suo amore dannoso può essere considerato comunque sincero e a fin di bene, e non frutto di puro egoismo. Non è detto che sia così, ma la bizzarria di mettere i titoli di testa in coda al film e di fare leggere di conseguenza il titolo solo a fine proiezione può voler dare una conferma a questa interpretazione.

È chiaro che la Argento a suo modo sia un’esibizionista: oltre a voler dimostrare che pur avendo fatto pochi film ed essere figlia d’arte sa manovrare bene la macchina da presa incastrando e animando incubi e realtà, mette in scena tutti i suoi amici più illustri come Peter Fonda, Morgan, Ornella Muti, Merilyn Manson e Michael Pitt. Manson senza trucco ha un facciotto simpatico da fargli il ganascione, al punto che risulta immediatamente chiaro perché - dato il ruolo che si è scelto nella musica - per fare ‘paura’ alle brave mamme americane abbia scelto la strada del trucco. Naturale che la sua inutile presenza sia dovuta alla volontà della regista di consolidare il suo ruolo di anticonformista, così come quella di Peter Fonda invece al tentativo di dare un tocco ‘autorevole’ al suo lavoro.
Anche come attrice, questa volta la mefistofelica Asia risulta convincente, anche se per dirlo con sicurezza bisognerebbe sentirla nella versione originale in inglese e non in quella ridoppiata, pur se da se stessa, in italiano.
Chi ama i bambini si astenga dal vedere questo crudissimo road-movie sull’innocenza violata e si limiti a versare il costo del biglietto direttamente al Telefono Azzurro, ente a cui vengono devoluti gli incassi del film: questa non è una storia a lieto fine né commovente, e l’attenzione della Argento va soprattutto al suo odioso alter-ego, naturalmente per un fatto di puro narcisismo.
Quel che si vede dall’inizio alla fine è una serie di violenze fisiche - non dettagliate, per fortuna - e psicologiche a cui viene sottoposto questo bambino da chiunque gli capiti a tiro, con situazioni per lui tragiche ma narrate in modo alquanto beffardo e crudele dalla regista per creare il fastidio che certi comportamenti meritano. Ma quello che ne viene fuori in verità non è altro che una ridicolizzazione del personaggio, quasi si trattasse di un Fantozzi in erba su cui sbizzarrirsi. Il vertice del patetismo si ha nella scena in cui la Argento arriva a travestirlo da donna.
Evidentemente J. T. Leroy è realmente stato considerato nella vita nient’altro che un giocattolo su cui sfogarsi cinicamente come nelle scuole fanno i più forti nei confronti dei più deboli. Con l’aggravante però che qui c’erano di mezzo il sentimento filiale e quello materno.
Un film sadico? Probabilmente no, ma neanche si è molto distanti. Sicuramente ambiguo. Al punto che, come anticipavo prima, rispetto alla - diciamo - inconsapevole Sarah, gli altri parenti del bambino, repressori che lo vessano insegnandogli comportamenti e punti di vista innaturali per farlo diventare un “perfetto cristiano”, destano alla fine quasi le nostre simpatie.
Sono convinto che la regista volesse rappresentare due realtà egualmente orrende sui contrasti delle zone sud degli Stati Uniti, ma alla fine il piatto della bilancia non è pari. Ingannevole è Asia sopra ogni cosa!…

La storia: la giovane Sarah, schizoide e tossicodipendente, riesce a riavere Jeremiah, il suo figlio di cinque anni che fino ad allora era cresciuto in una famiglia adottiva dove viveva tranquillo e “viziato”. Sua madre lo porta in giro da un posto all’altro assieme ai suoi beceri amanti occasionali, per i quali si prostituisce volentieri. Ma Jeremiah, dopo uno stupro, viene riaffidato ai ricchi nonni (Muti e Fonda) e cugini repressivi che cercano di farlo diventare come uno di loro. Finché nuovamente non riappare la madre e lo riprende con sé trascinandolo in un inferno indescrivibile che li vede finire entrambi dentro un ospedale, con la differenza che lei è ormai un grave caso psichiatrico…
Rimane, a fine proiezione, una curiosità molto forte ma destinata a rimanere inappagata: che tipo di adulto sarà diventato Jeremiah? Il mostrarcelo avanti negli anni avrebbe dato di sicuro una maggiore compiutezza al film, indipendentemente da come si conclude il libro. Vedendo il finale scelto, infatti, si ha l’impressione di aver assistito alla prima parte di una storia  frazionata.
Le situazioni non sono tutte plausibili, come l’ultima scena che responsabilmente non voglio svelare. Ma è perdonabile: il film cede più volte volutamente al simbolismo e al sogno acido (non nel senso necessariamente ‘tossicologico’ del termine).
Una cosa si può dire con certezza: dato che l’obiettivo era palesemente quello di mostrare coraggio e creare un film sgradevole, si può dire proprio che Asia Argento abbia centrato il suo obiettivo. L’importante e che non lo si intellettualizzi troppo al punto da descriverlo come un’opera d’arte.
Non basta essere fuori dagli schemi e avere dimestichezza con le immagini per dirsi artista, e su questo non sono sicuro che la compiaciuta regista abbia le idee molto chiare.
Se il suo voleva essere un ottimo esercizio di regia, magari finalizzato anche a risvegliare il nostro mercato filmico dal provincialismo e dal perbenismo, ben venga. Ma se la Argento ha intenzione di continuare così, beh… non è di questo che il cinema italiano ha bisogno.

Giovanni Modica (recensione fatta nel maggio del 2004)

Nessun commento:

Posta un commento