sabato 22 giugno 2013

SIGNORE E SIGNORI di Pietro Germi (recensione di Simona Zagnoni)

Il Caffè è ancora lì, in Piazza dei Signori. Per chi arriva a Treviso una sosta è d’obbligo, anche solo per ricordare la memorabile scena in cui tutta la compagnia di “amici” del film di Pietro Germi “Signore e Signori” è seduta ai tavolini di quello stesso Caffè a sorseggiare drinks, a fare pettegolezzi e soprattutto ad ammirare con sguardo bramoso le grazie femminili delle passanti.
Treviso, che non viene mai nominata, ma che è palesemente evocata dalle suggestive immagini in bianco e nero del film del 1966 di Germi, vincitore, non a caso, del Gran Prix per il miglior film al 19° Festival di Cannes (ex aequo con il film “Un uomo, una donna” di Claude Lelouche), oltre a due David di Donatello e a ben tre Nastri d’Argento.
Dalla prospettiva dunque di una piccola città di provincia e di una compagnia di amiconi - professionisti e commercianti della medio-alta borghesia - Germi racconta l’intero Paese, l’Italietta del boom economico, attraverso un romanzo corale che si articola in un trittico di storie che coinvolgono lo stesso gruppo di personaggi e che già per tale ragione di discosta dalla commedia ad episodi tanto frequente in quella stagione della nostra cinematografia.
Il film si pone come satira feroce ed impietosa dell’ipocrisia provincia italiana, rimandando così ad un altro film di Germi, “Un maledetto imbroglio” del 1959 - in cui il protagonista, il commissario Ingravallo, interpretato dallo stesso regista, appare già allergico ed insofferente ai manierismi di un’alta borghesia pseudo-colta e viziata - e rappresenta il terzo atto di una trilogia del grottesco (“Divorzio all’italiana, 1961, e “Sedotta e abbandonata”, 1964) in cui il nostro autore mette crudamente a nudo i deplorevoli costumi ed i vizi di una società bigotta e perbenista.
E quale migliore ambientazione, per le vicende narrate nel film, di una cittadina veneta, prototipo, soprattutto in quell’epoca storico-politica, di religiosità bigotta e ipocrita perbenismo?
Una cittadina che resta imprecisata per tutta la durata del film, ma in cui, come si è detto, è  ben riconoscibile Treviso.
Una Treviso profondamente provinciale, profondamente italiana.
Perché tutta l’Italia è provincia, fatta di piccole città, piccoli centri e paesi in cui tutti si conoscono e “tutti sanno tutto di tutti”.
Come in un giro di ballo qui si intrecciano le storie di un gruppo di amici, tutti “signori perbene” appunto, che però non esitano a tradire l’amico e compagnone di scherzi con la di lui moglie, bella e disponibile, come nell’episodio con Toni Gasparini (Antonio Lionello) e il Professor Giacinto Cattelan (un Gigi Ballista perfetto anche grazie al phisique du role).
Oppure immaginano di fuggire dalla moglie arpia e insopportabile con l’amata e bellissima commessa della tabaccheria della Piazza, come nell’amaro episodio che vede protagonisti il povero ragioniere Osvaldo Bisigato (Gastone Moschin) e l’elegante dolce Milena (Virna Lisi), costretti purtroppo dall’ipocrita perbenismo della città a interrompere per sempre la loro relazione, per rientrare nei ranghi l’uno di marito e padre (la separazione non è ammessa dal comune sentire ed il divorzio ancora non è stato introdotto nell’ordinamento giuridico italiano), l’altra nel ruolo di “brava ragazza” che non “sfascia” una famiglia.
Ma se degli uomini il regista traccia un ritratto impietosamente negativo, le donne non ne escono meglio.
Non a caso già nel titolo il film evoca anche le c.d. “Signore”.
Come la bella e vivace Noemi, moglie del Professor Cattelan, che non disdegna di tradire il consorte con il suo amico Toni Gasparini, che proprio per avere maggiore libertà di azione si è finto impotente con il di lei marito, così da renderlo meno attento e vigile sulla giovane  e procace mogliettina.
O, ancora, come la ragazzina finta ingenua che per ottenere un bell’abituccio, un bel paio di scarpine nuove e una borsetta non esita a prostituirsi o, meglio, a “concedersi” ai vari “signori” mariti e padri devoti.
Peccato che il di lei padre, il rozzo e testardo contadino Cristofoletto, denunci tutti per corruzione di minorenne, creando una situazione quanto mai imbarazzante per tutti i suddetti “signori” e le loro benpensanti mogli!
Cosicché la ricca, irreprensibile e bigottissima Ippolita Gasparini (una bravissima Olga Villi, che per la sua interpretazione vinse anche un David di Donatello), sorella di Toni, tutta dedita ad attività di beneficenza e a consigli parrocchiani, a pranzi con monsignori e vescovi, alla salvaguardia della morale cittadina, si trova costretta a intervenire, per salvare gli onorati fratelli, mariti e padri di famiglia, con una ingente offerta di denaro a Cristofoletto perché ritiri la denuncia, salvo poi cedere di buon grado, per lo stesso “elevato” fine, anche alle profferte sessuali dello stesso in un lurido pagliaio!
Un quadro spietato, quello dipinto da Pietro Germi, ma quanto mai attuale. In una società, la nostra occidentale, ove la “facciata” e le apparenze contano ben di più della sostanza, ove l’avere prevale sull’essere.
Una società, quella in cui viviamo, che ha fatto del denaro il vero “dio”, l’unico idolo adorato, e del sesso un normale strumento di scambio, anche per adolescenti che aspirano ad avere il cellulare ultimo modello, o una seduta dall’estetista oppure la borsetta da sera firmata Louis Vuitton
Del resto cosa ci raccontano ogni giorno stampa e televisione? Di politici e professori universitari che chiedono sesso per elargire favori o fare superare esami e, dall’altra parte, di ragazze che allo scambio sono ben disposte, lo considerano” normale”!
Non tutte per fortuna. Ma quelle che “non ci stanno” dovranno fare tanta fatica in più e sicuramente non otterranno i posti e le mansioni migliori o le migliori retribuzioni.
Salvo avere la consolazione di essere oneste e di sentirsi a posto con la propria coscienza, valore non quantificabile.
Oppure dovranno lasciare questo nostro Paese malato, che non è mai cambiato dall’epoca di quel film di Germi. Anche lì, del resto, lo scandalo viene insabbiato, i deboli sono indotti a tacere con il denaro, di cui hanno bisogno, e il giornalista è costretto a cancellare, a poco a poco, riga per riga, il suo articolo di denuncia, tanto che alla fine ordina sconsolato alla segretaria di buttare via tutto. Altrimenti perde il posto e gli chiudono il giornale. I Signori e le Signore!
 
Note: preme all’autrice del testo segnalare che il medesimo intende essere solo un contributo a carattere molto personale, senza pretesa di competere con la vastissima produzione critica sul cinema di Pietro Germi, alla quale si rimanda
 
                                                         Simona Zagnoni (recensione fatta nel mese di settembre del 2012)

domenica 26 maggio 2013

LA GRANDE BELLEZZA di Paolo Sorrentino

Finalmente, "La grande bellezza". Forte di un pregiudizio maturato negli ultimi quindici anni, non avrei scommesso una cicca sugli episodi con Sabrina Ferilli e con Carlo Verdone. Eppure sono quelli i più riusciti di un film su cui, forte di un pregiudizio opposto maturato negli ultimi dieci anni, avrei scommesso di più. Forse funzionano perché sono loro Roma. Due personaggi che fanno tenerezza, senza lati oscuri e che perlopiù subiscono le situazioni circostanti in modo diverso ma egualmente sfumato sul piano recitativo: Ramona (Ferilli) rappresenta l’accettazione, il commediografo (Verdone) è invece troppo sensibile e ambizioso per non continuare a mettersi in gioco accusare il colpo tutte le volte. Loro sono gli unici personaggi che rappresentano la sofferenza contenuta in un’opera che purtroppo indulge troppo spesso a topoi prevedibili e stereotipi rimarcati fino all’eccesso, ed è qui che si consuma la principale differenza rispetto al tenore generale del prototipo a cui Sorrentino si rifà, La Dolce Vita. Lì tutti i personaggi erano dolenti e trattenuti, il dramma palpitava sotto le situazioni; persino le espressioni del viso del protagonista Marcello erano controllate. Qui, al contrario, Jep Gambardella trasuda e ostenta amarezza anche verbalmente in troppi momenti. La parte del cardinale è in La Grande Bellezza l’opposto della figura di Ramona: trita e ritrita.
   Banalità sconfortanti, didascalismo e poi pezzi di magnificenza. Ed eccola, la grande bellezza del film: il sollevarsi in volo verso i cieli di Roma dei fenicotteri ripreso di spalle alla "santa", il pianosequenza della bambina nascosta sotto la cripta, la tirata all'intellettualoide che riprende La Terrazza di Ettore Scola, lo sfottò nei confronti dell’artista che si nutre di “vibrazioni”… Tutti “sparuti scampoli di bellezza” di cinema “immersi nel chiacchiericcio della vita mondana”, per dirla alla Gambardella. Elementi discordanti che convivono in un film non indimenticabile, frammentato, ma che ogni vero cinefilo e/o amante della città eterna deve guardare. Persino lui, il protagonista ottimamente interpretato da Toni Servillo, esprime la doppia anima del film: quella nobile (il disarmante sarcasmo napoletano del Jep “in società”) e quella pretenziosa (la già citata sottolineatura del disagio e il tono declamatorio delle frasi fuoricampo). Latita nella pellicola non tanto la bellezza quanto la Meraviglia che La Dolce Vita, film rispetto al quale non è lecito pretendere di non fare confronti, faceva esplodere in mezzo alle sue situazioni. Come spirito generale, qui siamo più dalle parti di Grand Canyon e Magnolia.
   Sorrentino, come sempre, arriva al contenuto quando fa parlare le immagini. Non è poco, e forse non è abbastanza. Un film che sarebbe stato più sincero senza le influenze felliniane (la camminata nei corridoi dei palazzi nobiliari è tratto proprio da La Dolce Vita, i pruriginosi ricordi infantili da 8 ½, Serena Grandi si mostra come in uno dei manifesti di Roma, l’accompagnatore della “santa” pare sfacciatamente uscito da Amarcord mentre la “santa” sembra la versione nobile della strega bambina di Giulietta Degli Spiriti) ma che non lascia indifferenti, e che deve sedimentare nella memoria per poter essere giudicato in modo esaustivo. La seconda parte è più altisonante ma anche più debole della prima, che invece pecca più che altro di una eccessiva, per quanto drammaturgicamente comprensibile, introduzione discotecara e trash.
   Forse stona il contesto sociale: La Dolce Vita raccontava un’annoiata vita mondana perfettamente inquadrata in un luogo, la Hollywood sul Tevere, e in un momento storico, il boom economico, in cui tutto quello che si rappresentava era credibile e visto come un fenomeno decadente ma non morente, tutt’altro: era una prepotente spinta verso un godimento vissuto senza complessi, in cui l’unico neo era la perdita di valori. Ora, in un paese in via di smantellamento come l’Italia di oggi, queste esplosioni appaiono perlopiù come un rantolo. Un rantolo di cui non si può fare una colpa a Sorrentino, il quale racconta una società comunque esistente. Ma che la maggior parte delle persone vive come qualcosa di staccato, di ancora più inventato della vita notturna della Via Veneto felliniana.
La mancanza di allusività e di sfumature ambigue che tanto abbiamo contestate a un film così drammaticamente esplicito come questo, trova un’eccezione in una singola scena che offre lo spunto a una doppia interpretazione di non trascurabile valore: la scena del funerale; Gambardella si prepara a quel che considera l’evento mondano per eccellenza snocciolando a Ramona i suoi imprescindibili codici di comportamento, tra i quali spicca la regola tassativa di NON piangere per non rubare la scena ai familiari del defunto. Ma qualcosa va storto: durante il trasporto della bara l’uomo si abbandona ad un pianto dirotto che coglie di sorpresa gli astanti. Cos’è stato a fare trasgredire al consumato re dei mondani una delle sue regole più ferree? Non la morte del ragazzo, probabilmente, dato che questi non era al centro della sua esistenza… Allora le ipotesi sono due: Gambardella è diventato così cinico da decidere di “rubare la scena” alla madre (Pamela Villoresi) del ragazzo, oppure l’occasione ha acceso la miccia per uno sfogo disperato e improvviso dovuto all’intera sua vacua esistenza e per troppo tempo represso. Come sempre in questi casi, è bello che la cosa resti inspiegata e, almeno per una volta, anche in quest’opera non sia indicata una direzione di pensiero del pubblico. 
Se è vero che lo stile rappresenta il contenuto, in fondo è giusto che l'Italia di oggi non sia stata rappresentata con una maggiore compattezza e armonia narrativa, perché avrebbe sconfessato la conclusione del protagonista che non era "mai riuscito a trovare la grande bellezza" in quarant’anni di vita mondana sul Tevere. Che sia voluta o no, l'imperfezione del racconto trasmette meglio di ogni altra cosa l'insolutezza.
Scordatevi La Dolce Vita e tuffatevi nel glamour provinciale della Roma bene degli anni 2000.
 
Giovanni Modica (maggio 2013)

lunedì 11 marzo 2013

L’OMBRA DEL DUBBIO di Alfred Hitchcock

Con l’aggettivo ‘seminale’ solgono definirsi solo alcuni film nella storia del cinema, e non sempre si tratta dei titoli rimasti incisi nell’immaginario collettivo. Spesso si tratta infatti di opere minori o di relativo successo, ma che hanno posto solide basi per nuovi filoni, tendenze e topoi all’interno della settima arte. Come definire altrimenti Shadow of a Doubt, (it: L’ombra del dubbio, 1943), nientemeno l’opera di cui il celebre Alfred Hitchcock andava maggiormente orgoglioso? Tra i film del regista, si può azzardare un paragone solo con Delitto per delitto (per via dello scambio di commissioni delittuose tra due personaggi, ripresa innumerevoli volte ispirandosi più al film che al romanzo di Patricia Highsmith da cui esso trasse la trama), o Psycho (per via dello sdoppiamento di personalità), ma in questi casi si tratta di film celeberrimi e quindi non bisognosi di alcuna presentazione particolare. Ben diverso è il  caso del film di cui stiamo scrivendo ora: in L’ombra del dubbio la trama è riassumibile in poche righe, ma non è certo nella struttura che va ricercato il valore seminale del film. In questa storia, che vede il ritorno di un losco individuo, tale Charlie (Joseph Cotten, l’unico divo del film), in seno alla famiglia di Santa Rosa in cui era cresciuto e da cui si era distaccato molti anni prima, assistiamo alla rappresentazione di un assassino assolutamente inedita fino ad allora, dato che questo personaggio - un assassino di ricche vedove - è non soltanto il protagonista del film ma anche una persona dal comportamento e dall’eloquio del tutto rispettabile e perfino gradevole fino a circa metà pellicola. L’incipit del film ci porta a sospettare che i due individui (loro sì, in apparenza poco rassicuranti) che lo tallonano non siano altro che creditori se non addirittura malavitosi che vogliono vendicarsi per qualche ‘soffiata’ ai loro danni. In realtà, dopo almeno quaranta minuti di film, scopriremo che i due altri non sono che agenti di polizia, e che il tanto amato zio Charlie è tornato nella cittadina di Santa Rosa solo per rifugiarsi in un luogo insospettabile, dove non lo avrebbe cercato nessuno. Hitch, quindi, in questo suo primo lavoro di ambientazione americana, per la prima volta rovescia gli archetipi classici. Gli spettatori dell’epoca non erano abituati a vedere un cattivo nel ruolo di protagonista e per di più così approfondito sul piano psicologico; erano abituati a vedere i malavitosi come figure concentrate solo ed esclusivamente sui loro progetti nefandi, per nulla propensi a discorrere su temi generali della vita in modo spicciolo e quotidiano. Non erano abituati ad affezionarsi al Male. Tutto ciò rende L’ombra del dubbio un film altamente spiazzante con un meccanismo di tensione a lenta carburazione, quasi un cross-over tra la commedia della prima mezz’ora – data dal confronto tra i simpatici personaggi della famiglia e il nuovo ospite – e il dramma che caratterizza il prosieguo della storia.
   In particolare, dal momento in cui la nipote Carla viene a conoscenza per la prima volta del passato dell’uomo leggendo un articolo in emeroteca, assistiamo a una metamorfosi progressiva di contenuto e stile. Da quel momento in poi, infatti, il clima del film si fa più teso e sulfureo, i commenti di Charlie sulla vita sempre più ficcanti e maligni, come ad esempio una sua considerazione rabbiosa contro il fenomeno sociale delle ricche vedove che dopo la morte dei loro consorti dissipano nel vizio i risparmi accumulati in una vita dai loro mariti. Ed è proprio in questo discorso, tenuto a cena di fronte all’intera famiglia, che mostra tutta la sua vera personalità; a quel punto noi spettatori sappiamo già cosa egli aveva fatto, e sappiamo perfettamente come interpretare le sue parole. Charlie è un ambiguo giustiziere con una sua morale distorta ma precisa, in bilico tra l’ansia di fare giustizia e l’opportunismo più criminale che possa esistere. L’intento dichiarato di Hitchcock di voler shoccare l’ingenuo spettatore dell’epoca mostrando l’insediamento di una serpe in seno a una famiglia perbene è esemplificato per intero in questa singola scena.
   Lo svincolo narrativo determinante lo abbiamo quando in città giunge l’erronea notizia che il famoso “assissino di vedove” è stato ucciso mentre tentava di scappare. Come detto, la nipote Carla è l’unica a sapere che in realtà il vero colpevole non era l’uomo di cui parlano i giornali ma colui che fino a un giorno prima era il secondo indiziato, ovvero suo zio, e ne ha conferma notando le iniziali di una delle vedove uccise incise sull’anello che lui le aveva regalato, non può tuttavia  informare la polizia del fatto finché lui rimane nella sua casa per non suscitare lo scandalo della città intorno alla famiglia (siamo nel 1943). Logicamente lui, sapendo questo, se ne guarda bene dal lasciare il luogo. Tuttavia l’uomo decide di non fidarsi troppo della salvaguardia del ‘buon nome familiare’ ventilata da Carla e cerca invano di ucciderla in un paio di occasioni. Con uno stratagemma, allora, finge di voler partire con l’unico fine di trattenere sul treno la nipote e scaraventarla dal mezzo poco dopo la partenza. Ma nella colluttazione Carla ha la meglio ed è lui a venire scaraventato fuori e travolto da un altro treno. In linea con il suo humour nero, il regista ci mostra la scena sovrapponendole le immagini di un giro di valzer sulle note de “La vedova allegra”.
   Tutto torna come prima: a Santa Rosa l’uomo sarà pianto come vittima di una disgrazia, e la ragazza tiene tutta la verità nascosta per non turbare l’ambiente e soprattutto per proteggere da un’atroce delusione l’affezionatissima madre. Coerentemente, la parte oscura della famiglia resta sepolta nell’oscurità.
   Degno di nota è il divertente svincolo narrativo che vede a più riprese, e per la durata di tutto il film, il padre di Carla Joseph intento a discutere con Herbie, un suo amico appassionato di gialli, su quale sia il modo più pratico per uccidere la gente: egli sostiene che gli autori europei siano ‘troppo fantasiosi’ e scelgono modi poco pratici e eccessivamente contorti per uccidere. “Niente è funzionale più di una bella botta in testa!”, è l’obiezione più classica di Joseph. Autoironia per eccellenza, considerato che l’autore europeo Alfred Hitchcock è il più famoso inventore di delitti macchinosi che si abbia in cinematografia.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel novembre del 2012)

TEXAS di Fausto Paravidino

Basso Piemonte: tra miti esotici e realtà terrena vivono gli sclerotizzati abitanti di un paesino in cui le vite di un gruppo di adolescenti in contrasto coi genitori si intrecciano con quelle di una coppia quarantenne. La causa sono le ‘debolezze’ una maestra per un ragazzo del gruppo. La tensione tra il giovane e il fidanzato di lei cresce fino a sfiorare una tragedia. Ma non è che una storia come tante, e la vita deve andare avanti. Anche se tutt’altro che in modo sereno. 

Il profondo nord visto dal di dentro. Siamo dinnanzi ad un film imperfetto ma dotato di un indubbia forza. Fausto Paravidino non è un emergente per la tv (“Cefalonia”), ma nel cinema il suo nome ancora non è decollato.
A tal proposito, è sempre un rischio vedere un film italiano di un nuovo regista o quasi, ma se si decide di farlo bisogna comportarsi non come uno spettatore della domenica ma come un vero cinefilo: vale a dire che se non si sopportano i primi 30-45 minuti bisogna resistere alla tentazione di andarsene pensando di aver già capito tutto e continuare a seguire con interesse.
Qui ad esempio sulle prime pare di trovarsi di fronte a un’ennesima commedia amara adolescenziale in puro stile Muccino con tanto di contorno di “adulti” in crisi esistenziali. Nonché dinnanzi a un film sulla pseudo-trasgressione giovanile da sabato sera settentrionale, montata e recitata alla maniera dei film di Luciano Ligabue, ma con l’aggiunta di colossali rutti e ubriacature tipici delle zone padane. Il ritratto, pur veritiero nel suo desolante anche se ironico contenuto, sapeva quindi di già raccontato, e da un momento all’altro ci si sarebbe aspettato qualche riferimento facile alle stragi del sabato sera.
Ma c’è sempre un “ma”. 

Un apporto alla sterzata del film lo da decisamente il personaggio di Valeria Golino, che in effetti innesta tutta la vicenda narrata a ritroso e in modo frammentato dal regista qui anche nelle vesti di attore nel ruolo di Enrico.
Il suo personaggio è la classica donna della discordia all’interno di un piccolo paese, ma la sua situazione è descritta senza banalità, evidenziando il contrasto tra la rozzezza dei censori del suo comportamento “confidenziale” con un adolescente - considerato disdicevole per un’insegnante come lei - e la finezza di lei. Certo, la maestra pecca di infedeltà nei confronti del suo uomo, ma non è tanto questo il punto che scatena le maldicenze quanto l’età anagrafica del suo pupillo, anche lui fedifrago. Il padre del giovane, un uomo con aspirazioni politiche, contribuisce suo malgrado a pubblicizzare la cosa. Qui emerge con forza quanto tra nord e sud certe vedute si equivalgano. 

A metà proiezione si ha addirittura una perla di saggezza, un momento in cui Cinzia (la ragazza ufficiale del ‘pupillo’) descrive a un amico del gruppo la sua famiglia partendo dai dettagli della sua/loro casa, un’abitazione piena di trasandatezza e di vetri rotti rappezzati con lo scotch da anni. Il suo interlocutore le fa notare che forse è una questione di povertà, ma lei sgombera il campo dagli equivoci, spiegando che non sono i soldi a mancare ma che si tratta di una vera forma mentis, o meglio di “una cronica disattenzione per tutto ciò che è considerato superfluo nella vita”; per cui quando lei fa una domanda a sua madre riguardo all’amore per suo padre, lei le risponde “Siamo sposati...” e riguardo all’affetto per lei: “Sei nostra figlia…”. Scambiando le sfumature con il superfluo, i genitori l’hanno spinta quindi ad apprezzare il divertimento scomposto del suo nuovo  gruppo di amici con tutti i suoi aspetti anche degradanti (ma questo aggettivo non viene espresso).
Texas evita di cadere in un altro tranello nel finale, quando si crede di stare per assistere ad un duello-con-vittima anche in virtù del metaforico titolo. Qui si resta spiazzati perché non solo non ci scappa la consumazione della vendetta, ma non si ha nemmeno un diverbio. Resta un eloquente  silenzio che stempera la drammaticità in malinconia.
Intelligente e realistica la reazione del personaggio di una ragazza del gruppo che viene stuprata da un amico, anche questa priva del ‘botto’ che ci si aspetterebbe da un film. 

Riguardo agli attori va detto che non tutti erano “in ruolo”, nel senso che Iris Sposetti/Cinzia (anche coautrice del film) è palesemente più che trentenne e stride col resto del cast. Riccardo Scamarcio è l’attore forse meglio avviato fra i nuovi volti, e il suo sguardo tenebroso l’abbiamo già conosciuto nell’incisivo ruolo del Nero nel bel Romanzo criminale di Placido. La mia percezione è stata che le ragazze in sala fossero lì per lui.
Come già detto, Valeria Golino - unica star - fa un buon servizio al film con un personaggio in cui sembra trovarsi a suo agio.
In definitiva un film da non trascurare, maggiormente riuscito nella sua parte drammatica rispetto a  quella grottesca iniziale. 

Presentato al Festival di Venezia 2005

Giovanni Modica (recensione fatta nell’ottobre del 2005)

sabato 9 marzo 2013

FALSE VERITÀ di Atom Egoyan

Atom Egoyan: un regista con diverse corde al suo violino. Credevo di averlo inquadrato in uno stile fluido ed elegante ma lineare con il noiosissimo Exotica e il sorprendente Il viaggio di Felicia. Mi manca ancora Il dolce domani per poter dire qualcosa di più completo sul suo conto, ma intanto che colmo questa lacuna (cosa che a questo punto per me diventa d’obbligo…), mi focalizzerò strettamente su questo film, dallo stile molto meno intellettuale degli altri. Meno intellettuale chiaramente non sta a significare meno intelligente bensì solo meno “intimista”. Anzi questo thriller del regista canadese è quanto di più intelligente possa esserci al cinema oggi, e rappresenta una vera sfida alla concentrazione dello spettatore, trattandosi di uno di quei film che se ti alzi dalla sedia un momento per andare in bagno rischi di perdere qualcosa di determinante. Più che di semplice thriller, si tratta della più intrigante frangia del genere giallo propriamente detto, inteso come murder-mystery e per di più senza la presenza della polizia.
Affastellamenti, depistaggi apparentemente farraginosi che confluiscono sorprendentemente in una soluzione lineare che lo stile del film apparentemente escluderebbe fin dai titoli. Se vi piacque Chinatown, non potete perdere questo film; se cercate balzi sulla sedia invece vi consiglierei di orientarvi altrove.
Siamo sul terreno dell’hard-boiled in un contesto temporale insolito (va dagli anni ’50 ai ’70).
Kevin Bacon, Colin Firth e Alison Lohman (costei l’abbiamo vista in un ruolo da finta adolescente ne Il genio della truffa di Ridley Scott) sono a pari merito i protagonisti del film, impedendo allo spettatore un’immedesimazione totale con qualcuno di essi.
Anni ’70: Lenny Morris (Kevin Bacon) e Vince Collins (Colin Firth) sono due ex conduttori umoristici di molte fortunate edizioni di Telethon di vent’anni prima. Una casa editrice molto accorta decide di rispolverarli per cavalcare la moda dei personaggi di una volta che si raccontano senza pudore alcuno. Così, per questo compito viene scelta Karen, una ragazza che da piccola partecipò come ospite ad una puntata del programma dei due in qualità di persona guarita grazie ai fondi della trasmissione. Karen si ricorda di una frase molto dolce e commovente detta a lei senza microfoni da Lenny, e anche per questo vuole fare luce sulla sordida vicenda di una donna trovata morta dopo avere avuto rapporti con lui in un albergo. Il caso fu all’epoca quasi insabbiato. C’è di mezzo di tutto: droghe, collusioni con la mafia e vizio, ma il modo con cui lei conduce le sue indagini è ingannevole finché il suo “gioco” viene a galla e lei stessa viene ricattata.
Per una cosa mi trovo pienamente d’accordo con un giornalista di un noto quotidiano che sostiene che per uno spettatore particolarmente attento – ma particolarmente! – non è impossibile indovinare CHI ha creato la situazione. Ma il movente è tutt’altro che immaginabile! Così come non immaginabile è la parziale estraneità sia di Lenny che di Vince. Ma di più non mi sento in diritto di svelare…. Il finale è dolceamaro come nel già citato Chinatown.
 
Le musiche di Mychael Danna sono, come da tradizione nella filmografia del regista, tutte di stampo “herrmanniano”. Nessuno se ne è mai lamentato e quindi la recidività di questa scelta è giusta.
Le scene migliori? Tutte quelle ambientate nella stanza di albergo che rappresenta il fulcro della vicenda criminosa e quelle all’interno della mastodontica villa di Vince. Si sa che le droghe sono sempre state una buona e facile occasione per fare dimostrare a un regista il suo talento con immagini divertenti sia per chi le gira che per chi le guarda, a meno che non si esageri. Egoyan non aveva bisogno di dimostrare il suo virtuosismo, ma ha fatto bene a sbizzarrirsi con luci e montaggi alternativi perché anche i neuroni dello spettatore a un certo punto devono riposarsi e lasciare il posto alla gioia degli occhi. Gioia degli occhi anche per ciò che viene mostrato (almeno per uno spettatore maschio), visto che si rappresentano soprattutto scene di sesso tra due belle donne. Non dettagliate. Lo voglio specificare, consapevole che a qualcuno potrebbe non piacere uno spettacolo lesbico. L’implacabile censura USA non ha perso l’occasione di criticare queste scene. Ma Atom  non è un pornografo; e poi ricordiamoci che nonostante il film sia co-prodotto dagli States, la sua cultura è canadese.
Quindi il merito di Egoyan non sta tanto nelle splendide scene con cui ha descritto il film, cosa per lui usuale, ma anche e soprattutto in un elemento meno scontato che è l’ossatura dell’opera: una trama come questa, tratta dal romanzo “Where the truth lies” di Rupert Holmes, era estremamente difficile da riassumere in due ore di film. Certo merito anche dell’addetta al montaggio Susan Shipton, ma il regista è stato anche curatore della sceneggiatura, ed il risultato è straordinario.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nell’aprile del 2006)

MI PRESENTI I TUOI? di Jay Roach

Ho sempre pensato che sia estremamente più facile scrivere una recensione molto accurata che fare un brutto film. Pertanto vado sempre coi piedi di piombo nel giudicare negativamente quel che ritengo essere comunque un’‘opera dell’ingegno’. E anche quando non sono soddisfatto di quel che ho visto, cerco di evidenziarne i pochi (per me) pregi che vi scorgo.
Ma, voltando pagina… a chi giova uno che scrive solo elogi?
Comincerò con la stessa frase che ho speso per commentare le mie pellicole preferite (Volevo solo dormirle addosso e 36 - Quai des orfévres) fra quelle viste da quando ho iniziato questa estemporanea attività di recensore, e cioè più o meno: “Era da tempo che non si vedeva un film così…”. Ma proseguirò in modo diverso.
Era da tempo che non si vedeva un film così indifendibile e irrispettoso nei confronti di un pubblico giovanile, che pur si accontenterebbe di poco (come del primo, già mediocre Ti presento i miei, dopo il quale non sarei andato a vederne un seguito senza la spinta di un amico). Ciò che ho visto supera le mie peggiori aspettative e mi spinge ad affiancare idealmente quanto a vuotezza questo film ad un’altra debolissima commedia di pochi anni fa dal titolo Storia di noi due con Bruce Willis e Michelle Pfeiffer.
I film con Ben Stiller hanno ormai il marchio di fabbrica di un trash praticamente identico alle nostre commediacce d’annata con Alvaro Vitali, che oggi vengono ingiustamente rivalutate al pari dei film di Mario Bava.
In “Mi presenti i tuoi?” è più che evidente che si è voluto tirar via su tutto, facendo leva esclusivamente su due cose: l’ottimo riscontro di pubblico del primo film e il cast stellare incastrato dai produttori in nome di tale successo. Questa sfilacciatissima pernacchia cinematografica è costruita su una trama priva di fantasia, che riassumerò facilmente in poche parole; tanto ciò che vi è in mezzo è costituito da pura noia e scontate, forzatissime battute.
De Niro e moglie decidono di conoscere, insieme a genero e figlia, i loro consuoceri (i Fotter: Hoffman e Streisand) scoprendo che si tratta di due zotici erotomani, con credo e abitudini opposti ai loro. Poco dopo De Niro scopre che forse il genero (ovviamente Stiller) ha un figlio segreto nato quindici anni prima da un rapporto con la ex domestica di famiglia. Dopo essersi ricreduto grazie alla prova del dna, il diffidente De Niro rivaluta l’intera famiglia dei Fotter. Anche perché la Streisand, riabilitatrice erotica di arzilli vecchietti tramite danza, era stata di grande aiuto ad un anziano giudice con cui lui e Hoffman si sono trovati ad avere a che fare per colpa di un poliziotto troppo zelante.
Quel che si vede nel frattempo è un collage di raffinatissime gags a base di prepuzi conservati dopo la circoncisione che cadono nella zuppiera, segreterie telefoniche che parlano di flatulenze, cani che vengono risucchiati nel w.c. e salvati per miracolo, e via discorrendo.
Perdonatemi se ho scelto per questo commento toni più ‘personali’ e soggettivi del solito a scapito di un approccio più assoluto e di ampio respiro, ma mi sembrava giusto così, dal momento che non si tratta propriamente di un elogio.
Il parlare di questo film mi da l’occasione per fare una considerazione sul confronto che un noto settimanale ha voluto fare fra i lavori dei cosiddetti ‘tre tenori del cinema’ che stanno contendendosi in questi giorni i favori del pubblico: la mia personalissima opinione è sempre stata che De Niro e Hoffman siano superiori a Pacino. Ma va detto che il nuovo film che vede quest’ultimo protagonista (Il mercante di Venezia), per quanto non perfetto, ha l’indubbio pregio di essere Cinema.
Mentre dal mitico De Niro, ormai, mi aspetto che continui a interpretare il Jack della saga dei Fotter con nonchalance fino ai prossimi cinque anni, visto che lui ha affermato che non gli dispiace affatto essere identificato dal pubblico giovanile con quel personaggio.
Può darsi che non sia il mio genere, ma altre commedie non particolarmente sofisticate come Starsky e Hutch (sempre con Stiller), se non altro due risate me le avevano fatte fare. Era chiaro che qualcuno si era sforzato per scrivere un copione il più possibile divertente.
A volerla dire tutta anche l’unico momento davvero comico di questo film deriva indirettamente proprio da Starsky e Hutch, visto che nel finale abbiamo la sorpresa dell’arrivo in scena in tono divistico di Owen Wilson in veste di special-special guest star! Il fatto di stupire il pubblico con il trionfale cameo di una tale ‘celebrità’ in un film che vede protagonista il trio De Niro-Hoffman-Streisand ha effettivamente un ché di esilarante. Comprensibile però la consapevolezza degli autori che la commedia poliziesca con Stiller e Wilson sia un caposaldo della cinematografia rispetto al loro lavoro.
Nel quale, oltre a informazioni curiose che mostrano il pentotal come “siero della verità” (sic), si nota una trasandatezza registica che avrebbe dovuto essere evitata almeno in nome delle fulgide carriere dei tre attori principali. Per dirne una, ho notato una cosa mai vista nei primi 1.000 film circa da me visionati nelle sale: in almeno due scene fa vistosamente capolino dall’alto un grosso microfono come - in alcuni rarissimi casi - nelle vecchie edizioni in vhs in ‘open matte’ (eliminazione delle barre di copertura ai margini orizzontali) che non erano certo state avvallate dai registi dei film pubblicati. Buona la prima!
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2005)

CHRISTMAS IN LOVE di Neri Parenti

Il mio sprezzo del pericolo mi porta periodicamente a dare fiducia a chi viene, spesso giustamente, bastonato dagli osservatori più ‘colti’.
L’ultima volta che ho visto un film con Boldi e De Sica al cinema è stato all’epoca di A spasso nel tempo, e devo dire che all’uscita dalla sala mi sono seriamente posto un dubbio sul quoziente intellettivo (non me ne vogliano gli estimatori di quel film) di quei miei connazionali che vanno al cinema una volta l’anno solo per vedere una cosa del genere, che percepivo come una mancanza di rispetto per lo spettatore.
Sono passati più di dieci anni e, aiutato nello spirito dalla presenza nel cast di Danny De Vito, dalla presentazione del film come ‘meno farsesco’ e più ‘situazionistico’, nonché dalla diceria che fosse condito da minor turpiloquio, questa volta ho deciso di riprovare a vedere una pellicola di questa indistruttibile premiata ditta che ormai si è ritagliata uno spazio come realtà duratura del costume cinematografico nostrano.
In precedenza, fra i film del filone che avevo visto soprattutto in televisione, confesso che qualcuno mi aveva anche divertito (un poco Yuppies-i giovani di successo, abbastanza Sognando la California e Vacanze di Natale ’95), quindi non voglio propinarvi la balla di essere andato a vedere questo prodotto per constatare fino a che punto di decadenza eravamo arrivati (e poi chi ci crederebbe?)!
È evidente che non è un film di regia, né di attori, ma puramente di sceneggiatura, e devo ammettere che, per l’occasione della presenza del grande (in senso di importanza) De Vito, il team ha giganteggiato. Queste cose vanno dette. Perché se nessuno lo fa, gli autori di certi lungometraggi, in assenza di riscontri da parte di chi si reputa più esigente - ma è chiaro che il compito spetta soprattutto ai critici veri e propri - ricominceranno a sfornare mediocrità come il Vacanze di Natale ’91 in cui era stato coinvolto anche il povero Alberto Sordi. Tanto per il grosso pubblico, a quanto pare, è esattamente la stessa cosa.
A parte Danny De Vito l’unico bravo del cast è, come sempre, Massimo Boldi, attore che fosse capitato negli anni ’50 sarebbe stato valorizzato a dovere, carico com’è di quella vena surreale, di quella voce e di quelle espressioni che in uno sketch televisivo bastano da sole a fare scattare una sana risata, come direbbe Dario Fo, di tipo ‘ventrale’; ma che di sicuro, all’interno di un film intero, non potrebbero mai bastare senza qualcosa di più ricercato. Per aiutare i più refrattari a riconoscere il talento poliedrico di Boldi, ricordo volentieri l’unica prova drammatica della sua carriera, quel Festival di Pupi Avati che, costituendo l’unico fiasco commerciale dell’attore, spinse quest’ultimo - più sensibile alle logiche degli incassi che a quelle artistiche - a non dare più seguito a questa svolta.
De Sica fa come al solito la pallida imitazione di Sordi, mettendoci ogni tanto un che di suo padre in versione attore, con in più il suo classico sovraccarico di smorfie. Sarebbe anche lui un discreto interprete se si lanciasse di più in ruoli drammatici simili a quelli di una fiction Rai di poco tempo fa… ma lui si ritiene un comico, e in questo genere, checché ne dicano lui e il suo pubblico, sarebbe meglio lasciasse fare alla sua storica spalla più in carne.
Allora cos’è che funziona veramente in questo film? Il soggetto, che si rivela decisamente molto al di sopra non solo dei film della serie ma anche della produzione comica media italiana di oggi. Non c’è solo mimica o lazzi, ma anche costruzione. Le parole volgari sono ben più di una, ma non arrivano (quasi) mai ad essere fini a se stesse. I tanti equivoci non sono scontati, e ci sono almeno due sorprese nella trama. Il  finale magari è un tantino cinico, ma non arriva a togliere quel sapore di commedia brillante quasi americana che pervade lo scoppiettante film. Contribuisce a questo clima anche la canzone, che riprende anch’essa - e non solo per il suo suono rétro - una tradizione dimenticata da anni in Italia: il brano fatto apposta per il film! Presente nei titoli di testa e in quelli di coda, questo pezzo scritto da Tony Renis racchiude come una luccicante cornice jazz o come un fiocco rosso natalizio questa commedia fatta di bollicine e fuochi d’artificio.
Certo, fosse stato concepito negli anni ’50 o primi ’60, questo film avrebbe dovuto rivaleggiare con ben altri tipi di commedie made in Italy… ma nel 2004/2005 sembra quasi un miracolo divertirsi dall’inizio alla fine di un film senza pesanti cadute di stile ed eccessi di surrealità.
 
L’ambiente è la Svizzera, e la storia è composta da tre episodi intrecciati. De Sica e la Ferilli sono due chirurghi plastici che un tempo furono coppia e che hanno giurato odio eterno l’uno nei confronti dell’altra, cercando di evitarsi (invano) anche nei luoghi da scegliere per le vacanze.
Boldi è un pilota - nonostante l’età, ma non sottilizziamo - all’apice del successo che prende una sbandata per la bellona (Alena Seredova) che gli consegna il trofeo, ed ha una figlia (la solita Capotondi, che dopo il film di Cappuccio è tornata al genere popolare) che s’innamora di un disoccupato più vecchio (De Vito) e più basso di lei di almeno 10 cm... . E Anna Maria Barbera, nell’episodio più debole del film, che vince un viaggio con Ronn Moss di “Beautiful”, espressivo come lo stucco.
Naturalmente le cose non rimarranno così come le ho descritte io qui sopra: ci saranno rimescolii totali e capovolgimenti di ruolo a non finire.
Il finale ha un effetto rewind che richiama quello di un vecchio film con Montesano dal titolo A me mi piace e può non essere di gradimento a tutti, ma se si entra nell’ottica dello sberleffo e si vedono i protagonisti come fossero personaggi tratti dai fumetti di Bonvi, il divertimento non si perde.
Tornando al cast, c’è da sottolineare che il mitico regista di La guerra dei Roses non si è affatto risparmiato, ed ha dato vita al suo personaggio con lo stesso fiato ed entusiasmo che riserva a  commedie ben più costose e di maggiore visibilità, rinunciando forse anche ad un compenso più elevato pur di lavorare nella sua patria d’origine. A tal proposito, bravo Aurelio De Laurentiis: per il cinema è giusto approfittare di questi sentimenti! Ronn Moss, come già detto in precedenza, dà il suo contributo con un’ideale $ scritta sulla fronte, ma gli si deve dare l’attenuante che gli è stata affiancata la Barbera, cosa che… ‘sconsolerebbe’ chiunque!
Per il pubblico femminile, forse Neri Parenti avrebbe dovuto chiedere di più a Moss, come, che so… un abbozzo di strip. Ma per fortuna ci pensa Boldi a compensare questa mancanza, con uno splendido nudo integrale (solo di spalle, purtroppo)! Se non vi basta, o donne che leggete, tenete conto che per il pubblico maschile non mostrano le loro grazie né la Seredova, né la Ferilli né la Capotondi. Per quanto riguarda la Barbera, siamo contenti che non faccia eccezione.
Da notare la superba interpretazione dello storico comprimario Enzo Salvi, decisamente la migliore della sua carriera, dal momento che questa volta non occupa nemmeno un fotogramma in pellicola.
La scena più divertente, da un punto di vista soprattutto visivo, è quella mostrata nei trailer, con Boldi che entra nudo con la Seredova in una stanza buia non sapendo che proprio lì era atteso da moglie, amici e parenti con la torta di compleanno pronta per lui; dando poi la colpa per il suo abbigliamento adamitico al caldo e usando come ventaglio proprio il quadretto con la foto di lui e sua moglie!
Neri Parenti si era quasi avvicinato a un miglioramento con l’ormai vecchiotto Infelici e contenti, ma per scontare le nefandezze della serie di Fantozzi ci vuole ben altro, e questa potrebbe essere la strada giusta. Coraggio!
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel dicembre del 2004)