sabato 9 marzo 2013

NON SI SEVIZIA UN PAPERINO di Lucio Fulci

Sono contento di vivere in quest’epoca per poter liberamente dire ciò che fino a un solo decennio fa non sarebbe stato possibile: Lucio Fulci fu un grandissimo regista.
Se la sua sperimentalità tecnica e il suo innovativo modo di scavare sottilmente nella parte oscura della psiche con accostamenti, colori e suoni arditi non fosse stata riconosciuta dagli USA, forse il mondo l’avrebbe dimenticato. Quentin Tarantino (per non parlare di Joe Dante), riconoscendolo come precursore di molto stile americano odierno, ha dato sicuramente una mano alla rivalutazione di questa controversa figura dotata di genio discontinuo ma lineare nella filosofia nichilista che lega tutti i suoi film, dai magnifici ai pessimi, dai thriller alle pellicole solo in apparenza comiche.
Gli altri “discepoli” (più o meno dichiarati) ad avere “studiato” Fulci sono De Palma, Rodriguez e Stone, assorbendo i suoi insegnamenti visivi nel rappresentare la violenza e i mezzi per farla penetrare nella psiche, non come qualcosa di asettico, ma presentandola per quello che è: una devastante e spiazzante forza che ti pone di colpo in una dimensione estranea e fuori dal tempo, irruendo inaspettatamente nei contesti e negli scenari più familiari, trasfigurandone la percezione e, ingannevolmente, addirittura la forma. Uno stordimento necessario per descrivere le sensazioni che si provano in quei momenti e che fino a prima di Fulci erano semplicemente definiti “da film” con la conseguenza di allentarne la forza fin dal principio, soprattutto in considerazione del balletto in cui il cinema aveva trasformato l’aggressività. Questo crudo realismo pone il regista fra i “veristi” (se possiamo scomodare una definizione “letteraria”) della sua categoria nonostante abbia spesso raccontato storie magiche o oniriche.
Il suo pessimismo però manca nei colleghi USA, che al suo stile coniugano ironia, denuncia sociale o comunque almeno un filo di speranza. A dire il vero un tale grado di pessimismo è raro trovarlo anche in Europa, superando in questo addirittura Mario Bava e Sergio Leone. Forse l’unico a reggere il paragone su questo piano è il mito Stanley Kubrick (d’accordo, americano, ma naturalizzato britannico), anche se le affinità tra i due si limitano a questo. Kubrick resta Kubrick...
Eppure il nome di Fulci viene tutt’ora associato a quello di Dario Argento solo per la comune frequentazione del giallo e dell’horror negli stessi anni, scordandoci che Argento - all’interno del suo genere - è fondamentalmente un ottimista.
 
UN FILM DI ESTREMI CONTRASTI:
Secondo dei tre suoi capolavori assoluti (dopo “Una sull’altra”, molto prima di “Sette note in nero”), “Non si sevizia un paperino” costituisce insieme a “Cosa avete fatto a Solange?” di Massimo Dallamano uno dei pochi gialli sociali del filone, e fu il film di cui il regista dichiarò di essere maggiormente fiero.
Continuamente sospeso tra sacro e profano, questo provocatorio e dissacrante film ha un impatto emotivo fortissimo sullo spettatore. Parla dei contrasti di un’Italia da troppo poco tempo entrata nel benessere industriale, ma con sacche nascoste di superstizione e di barbarie.
E’ presente anche il contrasto nord-sud inquadrabile nel personaggio di Barbara Bouchet, indicata come simbolo del peccato da abitanti di un paesino del sud che hanno ben poco di umano.
Azzeccato il binomio sole accecante-violenza con un risultato finale dirompente e realistico.
Nulla è edulcorato, e quel che viene fuori è un’artistica metafora su un momento di transizione della nostra storia in cui civiltà opposte, arcaicità (anche mentale) e sviluppo, convivevano gomito a gomito ignorandosi, come due strade parallele distanziate tra loro da solo un millimetro ma senza mai sfiorarsi e comunicare, fingendo di non vedere l’altra realtà per disprezzo o pura cecità.
Narrato con un raffinatissimo congegno giallo-poliziesco, il film è rimasto nei decenni insuperato e insuperabile.
 
LA TRAMA:
Inizialmente il film appare come un intrigante thriller di magia nera, per poi spostare l’asse nella direzione che sappiamo. In un paesino rurale della Lucania, vediamo una donna dissotterrare un piccolo scheletro e praticare dei riti voodoo con degli spilloni contro qualcuno che intuiamo - da alcune simboliche grida fuoricampo - essere dei bambini. Si tratta della “maciara” (Florinda Bolkan), una donna emarginata che si dedica alle arti magiche.
Poco dopo, dei bambini vengono ritrovati effettivamente uccisi. In paese (Accendura) sono da poco arrivati un giornalista (Tomas Milian, qui per fortuna tenuto a freno) e, da Milano, la figlia ricca di un abitante del luogo (Barbara Bouchet) che non si sa bene cosa ivi abbia intenzione di fare.
I sospetti dei carabinieri, dopo essere caduti sullo “scemo del villaggio” che aveva simulato un rapimento per soldi, si concentrano su quest’ultima. Finché la maciara, convinta di essere stata lei la causa delle morti, commette un gesto che insospettisce gli indagatori e il giornalista. Dopo l’arresto, confessa di essere stata lei a uccidere i bambini in quanto rei di aver profanato la sepoltura del suo figlioletto nato morto. Ma di averlo fatto con la magia nera!
Viene liberata e crudelmente linciata da alcuni abitanti convinti che siano state le sue “arti” a procurare le morti. Significative due frasi dell’unico agente che aveva capito cosa avrebbe comportato la liberazione della donna (senza essere capito, nel vero senso del termine, dai suoi incompetenti superiori): “Abbiamo fatto le autostrade e non siamo riusciti a debellare l’ignoranza”; e, rivolgendosi al giornalista: “No, non è il rimorso quello che legge nei volti di questi paesani. È solo il fatto che ora… hanno di nuovo paura!”
Come era prevedibile, nuove uccisioni di minori si verificano in paese.
Dopo astutissimi depistaggi per lo spettatore, si arriva alla conclusione finale: la testa di un bambolotto di Paperino viene trovata e si scopre che apparteneva alla sorellina sordomuta del parroco: uno dei bambini era stato strangolato, e il giornalista capisce che questa bambina deve avere visto la scena e averla imitata sul bambolotto. Si sospetta della madre del religioso (Irene Papas), ma quando questa si rifugia con la bambina su un promontorio braccata dal figlio scopriamo la verità.
Il killer è il prete (Marc Porel), ed agisce convinto che uccidendo degli esseri umani nell’“età dell’innocenza”,  avrebbe assicurato loro il paradiso sottraendoli alle spire del peccato dell’età adulta. Grazie all’intervento del giornalista e della ragazza, dopo una violenta colluttazione il prete cade dalla rupe, e vediamo il suo viso sfracellarsi contro le rocce, mentre alcune immagini della storia e i suoi pensieri fuoricampo riepilogano la follia ‘a fin di bene’ di un uomo che sceglie di dannarsi pur di salvare quelle che lui reputa anime pure e incontaminate.
Qui si ha forse l’unico punto registicamente poco felice, con un eccessivo indulgere nel particolare macabro della faccia del prete che letteralmente si rompe sulle rocce, cadendo irrealisticamente in rettilineo e con degli effetti non degni del confronto con gli altri presenti nel film.
La pellicola si chiude con una panoramica dall’alto e un canto in dialetto lucano proveniente da un luogo sconosciuto del paese.
 
RIVOLUZIONARIETÀ E INSENSATEZZA DELLA VIOLENZA:
Il tocco rivoluzionario di Fulci lo vediamo anche nel descrivere, in una scena del film, l’incredulità del prete nello scoprire che alcuni bambini erano dei guardoni, non sospettando che in realtà questi bambini profanano le tombe, fumano, torturano le lucertole e guardano le prostitute in azione con puntuale regolarità. Questi adulti in miniatura approfittano della falsa idea che i grandi hanno della loro età per vivere un loro mondo compiaciuto fatto di piccoli peccati, che nella mentalità del luogo verrebbero visti come insospettabili aberrazioni e proprio per questo esercitano su di loro un’attrazione irresistibile.
Il mito dei bambini come angeli puri e innocenti è in frantumi, l’intelligenza degli adulti pure.
Significativa, in una delle prime scene del film, l’espressione di un ragazzino che viene avvisato dell’arrivo delle prostitute mentre si trova in chiesa a pregare; qui traspare, dalla sua eccitazione e dal volto sudato, che in quel luogo sacro in realtà lui non stava aspettando altro che quel segnale.
 
Allargando il discorso, si possono citare numerosi altri esempi di morbosità gratuite di cui è pervaso il film. Cosa sorprendente e coraggiosa, in un’epoca in cui nei film ad ogni gesto insano corrispondeva ancora una precisa ragione di natura economica o una giustificazione psicanalitica. In una scena ultracensurata, ad esempio, la Bouchet costringe un imbarazzatissimo bambino a guardarla nuda solo per il gusto perverso di farlo, giocando per puro passatempo con la sessualità ancora latente del minore, esattamente per lo stesso motivo per cui quest’ultimo tirava le pietre con la fionda alle lucertole: piccoli e adulti uniti dal gusto per il puro sfizio insensato, a cui sfugge ogni logica, cosa impensabile per qualsiasi thriller di matrice americana.
 
Ma la scena della Bouchet nuda non fu l’unica ad essere censurata: prendiamo la scena stilisticamente più complessa del film, quella del linciaggio della maciara, tagliata dalle tv per la sua ferocia…
Campo lungo dall’alto, autoradio a tutto volume per nascondere le grida, e si vedono gli energumeni entrare nel cancello della maciara. La telecamera torna di colpo ad altezza umana. Inizia il massacro, e si ha forse per la prima volta il binomio rock’n roll-brutalità, futura delizia tarantiniana. Volendo, anche qui si potrebbe leggere la stridente convivenza di modernità e preistoricità.
Si nota quanto gusto malato e beffardo provino i carnefici nello sferrare pugni in faccia da dietro le proprie spalle per sorprendere la vittima, schiacciarle le dita nel cancello e colpirla con mazze ferrate e grosse catene. Quasi tutta la scena è ripresa in soggettiva mossa attraverso gli occhi della Bolkan, con un montaggio sorprendente ed effetti da manuale.
Qui si ha qualcosa che va oltre la rabbia e la vendetta: è lo sfogo di un gruppo di sadici che hanno trovato il modo di divertirsi senza avere scrupoli di coscienza, in quanto mandati in missione da tutto il paese.
Mentre lo shock è ancora in atto, la musica dell’autoradio cambia e si fa melodica, con un contrasto atto a impedire che lo scossone dato allo spettatore si esaurisca: la canzone (provocatoriamente d’amore!) è “Quei giorni insieme a te” della ex ‘cantante della mala’ Ornella Vanoni, nel ’72 già passata da tempo a un repertorio raffinato e sentimentale. Il brano, molto malinconico, fu scritto da Riz Ortolani appositamente per la pellicola.
Nuovo stacco dall’alto ed abbiamo il momento più lirico del film: mentre ancora prosegue la canzone, vediamo gli assassini allontanarsi credendo morta la donna, e per la prima volta proviamo pietà per questa figura apparsa meschina per tutto il film, in quanto ora sappiamo definitivamente che i mostri sono gli altri, i ‘razionali’ vendicatori del villaggio.
La maciara si trascina, nei suoi ultimi istanti si arrampica insanguinata sulle rocce assolate per affacciarsi alla modernissima autostrada e chiedere aiuto a gesti agli automobilisti che vanno al mare. Ma questi, intere famiglie di persone perbene, pur vedendola continuano a ridere e a scherzare tra di loro come nulla fosse, forse per semplice indifferenza, forse per non arrivare troppo tardi alla meta vacanziera.
Al ralenty vediamo, nella soggettiva falsata della morente, anche un bambino biondo con la faccia d’angelo e una grossa palla tra le mani, che nel vederla resta indifferente come di fronte ad un essere inferiore. A questo ralenty corrispondono perfettamente le ultime, struggenti note del brano della Vanoni.
Questa scena, pesantemente simbolica, è quella che più resta impressa di tutto il film.
Il capovolgimento dei ruoli ora si allarga diventando una critica senza speranze alla società benestante. Non si salva più nessuno. La canzone si spegne compassionevolmente insieme al personaggio della Bolkan.
 
Si torna al resto del film con una strana sensazione di spaesamento, come se si ritrovassero gli altri personaggi non dopo pochi minuti ma dopo un lunghissimo viaggio scioccante e irreale in cui sembrava di vivere una storia parallela talmente forte da essere decontestualizzata e da farti scordare come si era giunti fin lì.
Da qui in poi il film si snoda come uno dei più perfetti congegni del giallo italiano. La perfezione e la veridicità della trama per Fulci era indispensabile, soprattutto quando era affiancato dal geniale coautore e sceneggiatore Roberto Gianviti, mai considerato dall’intellighenzia critica per quello che valeva.
Fulci, da parte sua, su questo piano era particolarmente intransigente: quando ha voluto fare trame libere dalla logica ha adottato il genere horror. O ineccepibilità o totale anarchia visionaria, senza vie di mezzo. Lo splatter l’ha reso celebre nel mondo, ma in tale genere ha conquistato un tipo di pubblico più voyeur che raffinato, il che lo pone una spanna al di sotto del collega Argento, che nell’horror ha adottato uno stile più sobrio ed elegante. Fulci è il re del giallo (italiano e non solo).
Un esempio di grande inventiva - oltre che di indovinato montaggio - si ha per esempio nella scena in cui si mostra la Bouchet metter giù il telefono con aria sospetta da un Autogrill dopo che una delle future vittime era stata invitata da qualcuno (via telefono, naturalmente) a raggiungerlo/a fuori di casa: dopo l’uccisione, noi vedremo la donna addirittura negare di essere uscita la sera! Obiettivamente non è facile per lo spettatore immaginare chi altri potesse avere chiamato il ragazzino se non lei, che palesemente nascondeva qualcosa (più avanti scopriremo che si trattava di una dipendenza da droghe). Vedere per credere.
Così come è difficile non fare ricadere nuovamente i sospetti sulla donna del nord dopo che un altro ragazzo, da cui lei si era appena fatta riparare una gomma della macchina, viene trovato morto. Solo nel finale ricolleghiamo che il sacerdote si era appena lanciato alla ricerca disperata del piccolo per salvarlo dal pericolo del misterioso killer…
 
Il decadimento per motivi di salute e di budget della sua (pur filosoficamente coerente) opera, ma anche la sua frequentazione più o meno forzata dello splatter, hanno relegato il regista romano fra gli autori trash del nostro secolo o comunque di serie B.
Ma a differenza di altri suoi rispettabili colleghi come Lenzi e Margheriti, a cui il suo nome viene associato, Fulci non era un regista per commissione o perlomeno personalizzava le trame che gli si proponevano riscrivendole da zero.
Non hanno marciato a suo favore nemmeno altri elementi, come i titoli che i produttori gli imponevano per i suoi film - su questo il regista non aveva nessuna voce in capitolo - quasi sempre ridicoli come quello della pellicola di cui vi ho parlato fin ora. I titoli con i nomi di animali andavano di moda sulla scia dei successi di Argento, che tra l’altro Lucio non sopportava.
Poi, le uscite dei suoi film erano quasi sempre fissate intorno a ferragosto, il che significava la morte commerciale dei film!
Non ultimi, hanno giocato contro di lui anche il suo carattere terribile e gli attacchi alla Chiesa (cominciati col suo “Beatrice Cenci”) in un’epoca in cui ancora non si poteva essere anticlericali. Non a caso la terza scena tagliata da “Non si sevizia un paperino” è proprio quella del prete assassino che si sfigura cadendo dal dirupo.
 
In definitiva sull’artigiano Fulci si può dire che resta il primo regista (e tuttora uno dei pochi) ad aver coniugato le immagini forti con aspetti puramente subliminali e psicologici, mentre solitamente si è sempre scelto (anche oggi) tra la sottigliezza del suggerimento o il brutale colpo allo stomaco.
Sicuramente non sapeva di stare delineando una sua riconoscibile poetica attraverso i suoi pur diversissimi film. Inconsapevole come tutti gli artisti, oltre che un poeta maledetto era a suo modo un disperato romantico.
So che non è così, ma mi piace pensare al decadimento della sua opera come ad una parabola dell’inevitabile e sconsolato decadimento della vita stessa.
In più ci si potrebbe porre una domanda: cosa avrebbe potuto fare Lucio coi mezzi di oggi e la creatività degli anni ‘70?
 
CURIOSITÀ:
Pur senza plagi, l’ambientazione di “Non si sevizia un paperino” - e anche la scelta di location pugliesi per fittizie ambientazioni lucane - è stata ripresa da Salvatores per “Io non ho paura”, e, prima di questo, qualcuno avrà notato pesanti affinità stilistiche con il magnifico “La corsa dell’innocente” di Carlo Carlei, altro silenzioso discepolo di Fulci.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel 2006)

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