giovedì 7 marzo 2013

ALEXANDER di Oliver Stone

Sarebbe interessante sapere quanto ci vorrà ancora per una riabilitazione di Oliver Stone quale grande autore nel firmamento hollywoodiano. Vero è che con lavori come Assassini nati - Natural born killers e U-turn - Inversione di marcia il suo estroverso ed ipertrofico cinema ci ha messi a dura prova. Ma al di là delle cadute di gusto che spacciava per provocazioni negli ultimi anni, resta sempre uno dei pochi veri anticonformisti di Hollywood (altro che John Waters!) e gli si deve riconoscere, oltre che un enorme forza narrativa unita ad un consumatissimo talento visivo, un autentico coraggio dovuto alla sua personalità fortemente anarchica e refrattaria ai compromessi commerciali (tranne forse che per la scelta degli attori…).
Ora, dopo la lungaggine sul football americano con svincoli horror del tutto fuoriluogo (in Ogni maledetta domenica, con la scena dell’occhio del giocatore che parte dall’orbita aveva scambiato lo sport per una guerra), con “Alexander” Stone è finalmente tornato al terreno a lui più adatto: un film di battaglie epiche, in uno scenario storico per lui inedito ma congeniale alla sua predisposizione per la grandezza e per le immagini scioccanti. Quello che era fuori luogo nei suoi ultimi film qui è perfettamente inquadrato in un vortice di battaglie grandiose, l’ultima delle quali da far venire il cuore in gola per l’estremo realismo appena moderato da un uso espressionistico del colore dopo il ferimento del protagonista, calato in una specie di trance allucinatoria.
Il vecchio Oliver dalla mano di pietra è stato osannato nel suo Paese per i suoi film revisionisti o comunque “a tesi”, mentre ora che ha prodotto l’unico film storico americano fedele alla realtà dei fatti, non è stato considerato. Il mio parere è che più delle sue ardite idee complottiste e “sinistrorse”, quello che l’ha condannato ad odio eterno negli USA è stato un singolo film folle, il già citato Natural born killers, in cui l’aspetto provocatorio inizialmente voluto è stato palesemente sopraffatto dal compiacimento per un’insana e surreale violenza che il regista trovava ‘molto divertente’, trasformando il copione da denuncia sociale in una accattivante - e quindi pericolosa per un certo tipo di pubblico - farsa celebrativa dei serial-killer.
Come forse saprete, da allora Stone entra ed esce dai tribunali per colpa di psicolabili che hanno voluto imitare Mickey e Mallory e poi finiti fra le maglie di una Giustizia americana meno sprovveduta di quella raccontata dal regista.
Ci sono Paesi pronti a credere a tutte le redenzioni… tranne che a quelle artistiche.

Dunque, dicevo, in Alexander le battaglie sono ciò che si impone maggiormente alla memoria dello spettatore. In particolar modo due, la prima e quella in India. La prima, contro Dario, è un grandioso affresco di guerra dettagliato ma senza eccessi, in modo da offrire allo spettatore uno studiato crescendo durante il film. Memorabile, dopo i preparativi alla lotta, lo stacco con cui le grida di incitamento vengono narrativamente interrotte dal silenzioso eppur minaccioso volo di un aquila ripreso ad altezza grazie ad un quasi autentico ‘balzo’ della macchina da presa; offrendo, oltre che una metafora dell’aggressività guerresca di Alessandro, una panoramica dall’alto dei due eserciti in uno sterminato deserto. Subito dopo, il lancio delle frecce dell’esercito di Dario sembra prima trafiggere il cielo verso l’infinito e poi ricadere come un fittissimo stormo di uccelli in picchiata sui nemici. Una ricercatezza formale meravigliosa e stupefacente che non si dimentica. Di segno opposto, invece, il conflitto in India contro un esercito munito di elefanti. Qui si è voluta dare l’idea della degenerazione e dell’orrore facendo capire che la descrizione mastodontica ma elegante della lotta iniziale era dovuta alla volontà del regista di non assuefare lo spettatore fin dall’inizio con la cruda sanguinosità della guerra e continuare quindi a stupire con una lotta terribile che vede uomini e animali massacrati per l’insaziabilità di Alessandro, ormai un mostro di avidità. Come anticipavo poc’anzi, nel lungo epilogo del conflitto tutto diventa trasognato attraverso gli occhi del condottiero ferito a morte, comprese le urla che lo circondano, incredibilmente amplificate.
Non mancano sequenze puramente ornamentali e gratuite, come quella della madre maliarda (Angelina Jolie), che dà subito ad Alessandro un certo tipo di ‘educazione’ cingendolo, ancora in fasce, con un serpente dopo esserselo avviluppato intorno essa stessa, voluta malizia per gli spettatori. Oppure le generose grazie della moglie persiana (Rosario Dawson non la vedrò mai più con gli stessi occhi), scena che Stone ha fatto bene ad inserire, perché non è gradevole vedere solo i contorcimenti danzanti di Efestione-Jared Leto!
Durante la panoramica sulla città persiana accuratamente ricostruita ho potuto appurare lo studio meticoloso fatto per la raffigurazione delle mura di mattoni azzurri decorati che ne costituivano l’ideale ingresso come un grande corridoio a cielo aperto… mura fra le quali ho camminato quest’estate quando mi trovavo all’interno del museo delle Arti Orientali di Berlino, nel quale sono state ricostruite queste vie con i materiali originali della Persia. Vedendole nel film, essendo il ricordo ancora fresco, mi sono sentito lì. Una sensazione difficile da descrivere per chi non l’ha provata, e che mi ha fatto ripensare alle incaute considerazioni snob di Tarantino sulle “stronzate fatte al computer”.
Per il resto, il film ha una costruzione abbastanza tradizionale, senza le subliminali sequenze-lampo di solito amate dal regista e con un solo lungo flashback che vede la descrizione della morte, misteriosa, ma non troppo, del padre adottivo del condottiero, interpretato da un “mono-oculare” Val Kilmer.
Dopo questo, si segue il filo della storia in modo cronologicamente rigoroso e senza ellissi.
Nelle oltre tre ore di programmazione lo spettro della noia, che legittimamente si può temere dalle prime verbosissime scene, diminuisce al punto che verso la fine ci si sentirebbe pronti ad affrontare un’altra ora delle gesta del condottiero che morì imbattuto. Merito probabilmente anche di Collin Farrell, che alla prima grande occasione della sua carriera ha offerto ad Alessandro - forse involontariamente, ma poco importa - un volto bonario molto distante da quello che ci si aspetterebbe. Credo che tanti come me gradiscano essere spiazzati in questo genere di cose.
Da quando parte il lungo viaggio che vede i guerrieri transitare dai deserti più bollenti ai più inediti  scenari montuosi, la nostra attenzione resta viva senza la minima interruzione; soprattutto per i conflitti che si formano all’interno dell’esercito che comincia a manifestare i primi dubbi. Il fatto che anche noi, come spettatori, ci sentissimo frastornati a vedere simili scenari innevati in un tipo di storia da sempre identificato solo con terre infuocate, ci fa comprendere come quelle genti - per cui tutto ciò era una rivelazione - si fossero sentite ai confini del mondo. La meraviglia di questi uomini, che si erano fino ad allora ritenuti tanto ‘navigati’, si fa divertente quando li vediamo in India scambiare le scimmie per una specie di “piccoli uomini con la coda che vivono sugli alberi indossando una pelliccia”. Dopo l’ardito connubio di Alessandro con una giovane “barbara” della Persia, questi disagi pongono le basi per ben più concrete fratture nel gruppo, che arriveranno al culmine dopo le sempre più aperte concessioni del loro capo alle popolazioni delle terre conquistate, anche quando queste manifestano nei suoi confronti un atteggiamento ambiguo.
Malgrado tutto ciò Alessandro non sarà abbandonato dal grosso dei suoi uomini. E in chi sopravviverà, la fiducia divenuta vacillante sarà ripagata.  
L’impressione è che Oliver Stone, nel narrare questi conflitti interni, voglia dirci che il coraggio dell’eroe è quasi più forte per la sua scelta di sposare una donna barbarica, sfidando le tradizioni della sua gente, che per le battaglie condotte oltre ogni limite naturale. O perlomeno, dato lo spazio di pellicola che dedica al discusso connubio, cerca di mettere le due cose sullo stesso piano. In questa visione, secondo il mio parere, è Stone a rivelare un notevole coraggio. Non vorrei sembrare prosaico, ma senza voler togliere nulla alla forza mostrata da Alessandro per una simile scelta, credo che si tratti di poca cosa di fronte a ciò che ha dimostrato nelle sue imprese guerresche. Riconosco comunque che anche questo sia un punto di vista più che rispettabile.

Quello che lascia interdetti è l’improvvisa “correzione di tiro” del regista verso il finale del film: dopo la battaglia in India, in cui la voce narrante fuoricampo di Anthony Hopkins dice: “era la perdita di ogni ragionevolezza: da allora non fummo più uomini”, e in cui effettivamente si mostra un Alessandro in preda ad una frenesia irrazionale e priva di coscienza, si torna velocemente alla rappresentazione eroica e celebrativa del personaggio e di chi lo ha seguito fino agli ultimi eccessi. Evidentemente l’amore del contraddittorio Stone per le grandi saghe e gli eroi epici ha prevalso.
D’altronde è sempre stata una sua costante che l’istinto vanifichi all’ultimo la razionalità. Così come l’abbiamo spesso visto partire con le migliori intenzioni grazie a meticolose analisi  e  poi approdare a soluzioni di pura fantasia, vedi appunto la seconda metà del solito, controverso Natural born killers, con la grottesca fuga in massa dei detenuti dal penitenziario.
Ma non è strano, da parte di un regista che, pur avendo visto da vicino (e criticato) i crimini della guerra, continua a rappresentare la violenza in modo anche gratuito e ai fini di intrattenimento neanche tanto mascherato. L’autore della presente recensione è della scuola che ritiene Stone un “pazzo” autentico e non un furbo, altrimenti non farebbe dei film di questo tipo oggi nel suo Paese.
Ma nonostante la contraddizione che si porta dentro - peccato veniale perchè solo di carattere psicologico - , Alexander dovrebbe essere preso come esempio dagli autori di Troy, del pur bellissimo Il gladiatore e di Pearl Harbor per capire come anche un blockbuster americano possa essere filologicamente corretto. È curioso che questo esempio venga proprio da Stone.
Discutibile quanto si vuole, lui resta comunque uno dei pochi veri Autori americani di oggi che non lavorano su commissione e che sanno imporsi agli Studios. I suoi esiti, anche quando non piacciono, valgono sempre il prezzo del biglietto.
Gli altri sono, secondo il parere di chi scrive, David Fincher, Sofia Coppola, Paul Thomas Anderson e, della vecchia generazione, il già più compromesso Brian De Palma (a lui non perdono i due Mission: ‘impossible’ e ‘to Mars’) e Woody Allen. 

Giovanni Modica (recensione fatta nel novembre 2004)

Nessun commento:

Posta un commento