Sarebbe interessante sapere
quanto ci vorrà ancora per una riabilitazione di Oliver Stone quale grande
autore nel firmamento hollywoodiano. Vero è che con lavori come Assassini nati - Natural born killers e U-turn
- Inversione di marcia il suo estroverso ed ipertrofico cinema ci ha messi
a dura prova. Ma al di là delle cadute di gusto che spacciava per provocazioni
negli ultimi anni, resta sempre uno dei pochi veri anticonformisti di Hollywood
(altro che John Waters!) e gli si deve riconoscere, oltre che un enorme forza
narrativa unita ad un consumatissimo talento visivo, un autentico coraggio
dovuto alla sua personalità fortemente anarchica e refrattaria ai compromessi
commerciali (tranne forse che per la scelta degli attori…).
Ora, dopo la lungaggine sul
football americano con svincoli horror del tutto fuoriluogo (in Ogni maledetta domenica, con la scena
dell’occhio del giocatore che parte dall’orbita aveva scambiato lo sport per
una guerra), con “Alexander” Stone è
finalmente tornato al terreno a lui più adatto: un film di battaglie epiche, in
uno scenario storico per lui inedito ma congeniale alla sua predisposizione per
la grandezza e per le immagini scioccanti. Quello che era fuori luogo nei suoi
ultimi film qui è perfettamente inquadrato in un vortice di battaglie
grandiose, l’ultima delle quali da far venire il cuore in gola per l’estremo
realismo appena moderato da un uso espressionistico del colore dopo il
ferimento del protagonista, calato in una specie di trance allucinatoria.
Il vecchio Oliver dalla mano di
pietra è stato osannato nel suo Paese per i suoi film revisionisti o comunque
“a tesi”, mentre ora che ha prodotto l’unico film storico americano fedele alla
realtà dei fatti, non è stato considerato. Il mio parere è che più delle sue
ardite idee complottiste e “sinistrorse”, quello che l’ha condannato ad odio
eterno negli USA è stato un singolo film folle, il già citato Natural born killers, in cui l’aspetto
provocatorio inizialmente voluto è stato palesemente sopraffatto dal
compiacimento per un’insana e surreale violenza che il regista trovava ‘molto
divertente’, trasformando il copione da denuncia sociale in una accattivante -
e quindi pericolosa per un certo tipo di pubblico - farsa celebrativa dei
serial-killer.
Come forse saprete, da allora
Stone entra ed esce dai tribunali per colpa di psicolabili che hanno voluto
imitare Mickey e Mallory e poi finiti fra le maglie di una Giustizia americana
meno sprovveduta di quella raccontata dal regista.
Ci sono Paesi pronti a credere a
tutte le redenzioni… tranne che a quelle artistiche.
Dunque, dicevo, in Alexander le battaglie sono ciò che si
impone maggiormente alla memoria dello spettatore. In particolar modo due, la
prima e quella in India. La prima, contro Dario, è un grandioso affresco di
guerra dettagliato ma senza eccessi, in modo da offrire allo spettatore uno
studiato crescendo durante il film. Memorabile, dopo i preparativi alla lotta,
lo stacco con cui le grida di incitamento vengono narrativamente interrotte dal
silenzioso eppur minaccioso volo di un aquila ripreso ad altezza grazie ad un
quasi autentico ‘balzo’ della macchina da presa; offrendo, oltre che una
metafora dell’aggressività guerresca di Alessandro, una panoramica dall’alto
dei due eserciti in uno sterminato deserto. Subito dopo, il lancio delle frecce
dell’esercito di Dario sembra prima trafiggere il cielo verso l’infinito e poi
ricadere come un fittissimo stormo di uccelli in picchiata sui nemici. Una
ricercatezza formale meravigliosa e stupefacente che non si dimentica. Di segno
opposto, invece, il conflitto in India contro un esercito munito di elefanti.
Qui si è voluta dare l’idea della degenerazione e dell’orrore facendo capire
che la descrizione mastodontica ma elegante della lotta iniziale era dovuta
alla volontà del regista di non assuefare lo spettatore fin dall’inizio con la
cruda sanguinosità della guerra e continuare quindi a stupire con una lotta
terribile che vede uomini e animali massacrati per l’insaziabilità di
Alessandro, ormai un mostro di avidità. Come anticipavo poc’anzi, nel lungo
epilogo del conflitto tutto diventa trasognato attraverso gli occhi del
condottiero ferito a morte, comprese le urla che lo circondano, incredibilmente
amplificate.
Non mancano sequenze puramente
ornamentali e gratuite, come quella della madre maliarda (Angelina Jolie), che
dà subito ad Alessandro un certo tipo di ‘educazione’ cingendolo, ancora in
fasce, con un serpente dopo esserselo avviluppato intorno essa stessa, voluta
malizia per gli spettatori. Oppure le generose grazie della moglie persiana
(Rosario Dawson non la vedrò mai più con gli stessi occhi), scena che Stone ha
fatto bene ad inserire, perché non è gradevole vedere solo i contorcimenti
danzanti di Efestione-Jared Leto!
Durante la panoramica sulla città
persiana accuratamente ricostruita ho potuto appurare lo studio meticoloso
fatto per la raffigurazione delle mura di mattoni azzurri decorati che ne
costituivano l’ideale ingresso come un grande corridoio a cielo aperto… mura
fra le quali ho camminato quest’estate quando mi trovavo all’interno del museo
delle Arti Orientali di Berlino, nel quale sono state ricostruite queste vie
con i materiali originali della Persia. Vedendole nel film, essendo il ricordo
ancora fresco, mi sono sentito lì. Una sensazione difficile da descrivere per
chi non l’ha provata, e che mi ha fatto ripensare alle incaute considerazioni
snob di Tarantino sulle “stronzate fatte al computer”.
Per il resto, il film ha una
costruzione abbastanza tradizionale, senza le subliminali sequenze-lampo di
solito amate dal regista e con un solo lungo flashback che vede la descrizione
della morte, misteriosa, ma non troppo, del padre adottivo del condottiero,
interpretato da un “mono-oculare” Val Kilmer.
Dopo questo, si segue il filo
della storia in modo cronologicamente rigoroso e senza ellissi.
Nelle oltre tre ore di
programmazione lo spettro della noia, che legittimamente si può temere dalle
prime verbosissime scene, diminuisce al punto che verso la fine ci si
sentirebbe pronti ad affrontare un’altra ora delle gesta del condottiero che
morì imbattuto. Merito probabilmente anche di Collin Farrell, che alla prima
grande occasione della sua carriera ha offerto ad Alessandro - forse
involontariamente, ma poco importa - un volto bonario molto distante da quello
che ci si aspetterebbe. Credo che tanti come me gradiscano essere spiazzati in
questo genere di cose.
Da quando parte il lungo viaggio
che vede i guerrieri transitare dai deserti più bollenti ai più inediti scenari montuosi, la nostra attenzione resta
viva senza la minima interruzione; soprattutto per i conflitti che si formano
all’interno dell’esercito che comincia a manifestare i primi dubbi. Il fatto
che anche noi, come spettatori, ci sentissimo frastornati a vedere simili
scenari innevati in un tipo di storia da sempre identificato solo con terre
infuocate, ci fa comprendere come quelle genti - per cui tutto ciò era una
rivelazione - si fossero sentite ai confini del mondo. La meraviglia di questi
uomini, che si erano fino ad allora ritenuti tanto ‘navigati’, si fa divertente
quando li vediamo in India scambiare le scimmie per una specie di “piccoli
uomini con la coda che vivono sugli alberi indossando una pelliccia”. Dopo
l’ardito connubio di Alessandro con una giovane “barbara” della Persia, questi
disagi pongono le basi per ben più concrete fratture nel gruppo, che
arriveranno al culmine dopo le sempre più aperte concessioni del loro capo alle
popolazioni delle terre conquistate, anche quando queste manifestano nei suoi confronti
un atteggiamento ambiguo.
Malgrado tutto ciò Alessandro non
sarà abbandonato dal grosso dei suoi uomini. E in chi sopravviverà, la fiducia
divenuta vacillante sarà ripagata.
L’impressione è che Oliver Stone,
nel narrare questi conflitti interni, voglia dirci che il coraggio dell’eroe è
quasi più forte per la sua scelta di sposare una donna barbarica, sfidando le
tradizioni della sua gente, che per le battaglie condotte oltre ogni limite
naturale. O perlomeno, dato lo spazio di pellicola che dedica al discusso
connubio, cerca di mettere le due cose sullo stesso piano. In questa visione,
secondo il mio parere, è Stone a rivelare un notevole coraggio. Non vorrei
sembrare prosaico, ma senza voler togliere nulla alla forza mostrata da
Alessandro per una simile scelta, credo che si tratti di poca cosa di fronte a
ciò che ha dimostrato nelle sue imprese guerresche. Riconosco comunque che
anche questo sia un punto di vista più che rispettabile.
Quello che lascia interdetti è
l’improvvisa “correzione di tiro” del regista verso il finale del film: dopo la
battaglia in India, in cui la voce narrante fuoricampo di Anthony Hopkins dice:
“era la perdita di ogni ragionevolezza: da allora non fummo più uomini”, e in
cui effettivamente si mostra un Alessandro in preda ad una frenesia irrazionale
e priva di coscienza, si torna velocemente alla rappresentazione eroica e
celebrativa del personaggio e di chi lo ha seguito fino agli ultimi eccessi.
Evidentemente l’amore del contraddittorio Stone per le grandi saghe e gli eroi
epici ha prevalso.
D’altronde è sempre stata una sua
costante che l’istinto vanifichi all’ultimo la razionalità. Così come l’abbiamo
spesso visto partire con le migliori intenzioni grazie a meticolose
analisi e poi approdare a soluzioni di pura fantasia,
vedi appunto la seconda metà del solito, controverso Natural born killers, con la grottesca fuga in massa dei detenuti
dal penitenziario.
Ma non è strano, da parte di un
regista che, pur avendo visto da vicino (e criticato) i crimini della guerra,
continua a rappresentare la violenza in modo anche gratuito e ai fini di
intrattenimento neanche tanto mascherato. L’autore della presente recensione è
della scuola che ritiene Stone un “pazzo” autentico e non un furbo, altrimenti
non farebbe dei film di questo tipo oggi nel suo Paese.
Ma nonostante la contraddizione
che si porta dentro - peccato veniale perchè solo di carattere psicologico - , Alexander dovrebbe essere preso come
esempio dagli autori di Troy, del
pur bellissimo Il gladiatore e di Pearl Harbor per capire come anche un
blockbuster americano possa essere filologicamente corretto. È curioso che
questo esempio venga proprio da Stone.
Discutibile quanto si vuole, lui
resta comunque uno dei pochi veri Autori americani di oggi che non lavorano su
commissione e che sanno imporsi agli Studios. I suoi esiti, anche quando non
piacciono, valgono sempre il prezzo del biglietto.
Gli altri sono, secondo il parere
di chi scrive, David Fincher, Sofia Coppola, Paul Thomas Anderson e, della
vecchia generazione, il già più compromesso Brian De Palma (a lui non perdono i
due Mission: ‘impossible’ e ‘to Mars’) e Woody Allen.
Giovanni Modica (recensione fatta nel novembre 2004)
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