sabato 9 marzo 2013

ANGEL-A di Luc Besson

Un film fotografico. No, non nel senso dello stile di Antonioni, ma nel senso di immagine pubblicitaria, patinata, con tanto di modella-Vogue di quelle che non siamo abituati a sentir parlare. Non si può dire neanche film estetico, ma prettamente visivo. A differenza di Antonioni o Wenders, qui l’aspetto fotografico del film non è da considerarsi un veicolo per comunicare stati d’animo o immobilità del tempo, ma ha il puro e semplice - ma non meno encomiabile - scopo di togliere il fiato allo spettatore.
Lo scorrere delle immagini di “Angel-A” di Luc Besson è come sfogliare uno splendido libro sugli scorci più suggestivi di Parigi immortalati da un vero Autore della fotografia. Il ricercato bianco e nero, poi, arriva a rendere affascinante anche ogni singolo fotogramma del film; qualsiasi fermoimmagine, anche di quelli con i personaggi esteticamente meno gradevoli come il protagonista algerino-americano André (Jamel Debbouze) risulterebbe piacevole.  
La storia c’è, anche se la sminuisce il voluto elemento ‘deja-vù’ che la caratterizza. La critica ufficiale ha parlato di un “Il cielo sopra Berlino” meno problematico, oppure di un “La vita è meravigliosa” in piccolo, e c’è sicuramente del vero.
 
Le trovate ci sono, anche se - come detto - si tratta soprattutto di trovate d’impatto visivo: le ali della statua senza testa di un angelo davanti al profilo della figura di Angel-A.
E poco prima, la non originale ma splendida ripresa di lei mollemente seduta, con dei movimenti lenti e a gambe larghe, sull’orlo della finestra mentre osserva una scena che si svolge tra André e un uomo di malaffare all’interno di un ufficio. 
Ma anche nella trama ci sono momenti originali: ad esempio l’idea dell’angelo di farsi dire da lui ‘ti amo’ davanti allo specchio scomparendo a un certo punto dal suo fianco mettendolo in condizione di dirlo a se stesso!
Così come il far credere ad André e a tutti noi che Angel-A stia avendo rapporti mercenari per salvare le finanze di lui nel bagno di una discoteca mentre in realtà i rumori dei sussulti sono generati dalle botte che lei somministra ai malcapitati (poveretti, in fondo!…).
Fino a che non viene svelato il trucco di questa scena, il film più che di Wenders o di Capra mi era sembrato una copia di “Michael” di Nora Ephron con un Travolta in chiave femminile nelle vesti di Rie Rasmussen.
È evidente che la commedia “Michael” del 1996 ha pesantemente influenzato “Angel-A”, e che in realtà - anche se forse nessuno lo ha detto - il suddetto film americano è l’unico veramente simile a questo ultimo di Besson, con la figura di questo angelo quasi pagano che scende sulla Terra per aiutare un disgraziato e trasgredisce al suo ordine deontologico pur di farlo fino in fondo.
 
Si può quindi dire con tranquillità che si tratta di un gran misto di elementi conosciuti, ma non è una grossa colpa: Besson ha detto che ha voluto fare un film leggero, un’opera gradevole in una fase estemporanea nella eterna scrittura del suo prossimo film pare da 70 milioni di dollari. Le pretese non erano eccessive, quindi, fin dal principio. Saggiamente, il regista non ha mai negato che il vero pretesto del film fossero le inquadrature - da lui molto ricercate anche nei film del passato -  e con loro l’omaggio alla Parigi cosmopolita di oggi con due personaggi che di francese non hanno nulla (una palesemente scandinava e uno palesemente nordafricano) e valorizzati dallo sconosciuto direttore della fotografia Thierry Arbogast.
 
La tipicità della storia è dunque compensata da altri elementi. L’unico vero difetto è che Besson costringe come sempre gli attori a gesticolare e a istrioneggiare troppo, mentre nei dialoghi dovrebbe limare anche il banale lato umoristico che invece da sempre alimenta nei suoi film. Non sarà importante, ma davvero non capisco per quale motivo questo regista insista nell’inserire nei suoi film una delle battute più deboli mai sentite al cinema. Alludo allo scambio verbale: ““Non ripetere più okay, okay?” “Okay””. L’avevamo già sentita in un dialogo tra Jean Réno e Nathalie Portman nel film Lèon del 1994 ed aveva già un sapore vecchio; ora la sentiamo riciclata in Angel-A, si vede che il regista ne è davvero orgoglioso. D’altronde l’insistente aspetto ironico dei suoi film è rimasto fermo al gusto del cinema USA anni ’80, quando l’autore aspirava spasmodicamente al titolo di “regista più americano d’Europa” come fosse davvero un fiore all’occhiello.
La sua affannosa ricerca del consenso popolare e del pubblico USA lo ha sempre spinto a forzare la mano rendendo stereotipati i suoi personaggi. Addirittura, qui, per omaggiare gli USA, arriva a rendere ‘americano’ persino un personaggio algerino, munendolo di carta verde e di un fantomatico attico a Manhattan!
Comunque rispetto al passato i suoi dialoghi e le psicologie da lui tratteggiate hanno subito un miglioramento, e la cosa emerge anche in considerazione del fatto che qui mancava totalmente il vero punto di forza del suo cinema, ovvero l’azione. Besson ha voluto cimentarsi, oltre che con le immagini sofisticate, anche con i “contenuti”. E, considerandosi di lui, non ci si può certo lamentare.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel marzo del 2006)

Nessun commento:

Posta un commento