Un film fotografico. No, non nel
senso dello stile di Antonioni, ma nel senso di immagine pubblicitaria,
patinata, con tanto di modella-Vogue di quelle che non siamo abituati a sentir
parlare. Non si può dire neanche film estetico, ma prettamente visivo. A
differenza di Antonioni o Wenders, qui l’aspetto fotografico del film non è da
considerarsi un veicolo per comunicare stati d’animo o immobilità del tempo, ma
ha il puro e semplice - ma non meno encomiabile - scopo di togliere il fiato
allo spettatore.
Lo scorrere delle immagini di “Angel-A”
di Luc Besson è come sfogliare uno splendido libro sugli scorci più suggestivi
di Parigi immortalati da un vero Autore della fotografia. Il ricercato bianco e
nero, poi, arriva a rendere affascinante anche ogni singolo fotogramma del
film; qualsiasi fermoimmagine, anche di quelli con i personaggi esteticamente
meno gradevoli come il protagonista algerino-americano André (Jamel Debbouze)
risulterebbe piacevole.
La storia c’è, anche se la
sminuisce il voluto elemento ‘deja-vù’ che la caratterizza. La critica
ufficiale ha parlato di un “Il cielo sopra Berlino” meno problematico,
oppure di un “La vita è meravigliosa” in piccolo, e c’è sicuramente del
vero.
Le trovate ci sono, anche se -
come detto - si tratta soprattutto di trovate d’impatto visivo: le ali della
statua senza testa di un angelo davanti al profilo della figura di Angel-A.
E poco prima, la non originale ma
splendida ripresa di lei mollemente seduta, con dei movimenti lenti e a gambe
larghe, sull’orlo della finestra mentre osserva una scena che si svolge tra
André e un uomo di malaffare all’interno di un ufficio.
Ma anche nella trama ci sono
momenti originali: ad esempio l’idea dell’angelo di farsi dire da lui ‘ti amo’
davanti allo specchio scomparendo a un certo punto dal suo fianco mettendolo in
condizione di dirlo a se stesso!
Così come il far credere ad André
e a tutti noi che Angel-A stia avendo rapporti mercenari per salvare le finanze
di lui nel bagno di una discoteca mentre in realtà i rumori dei sussulti sono
generati dalle botte che lei somministra ai malcapitati (poveretti, in
fondo!…).
Fino a che non viene svelato il
trucco di questa scena, il film più che di Wenders o di Capra mi era sembrato
una copia di “Michael” di Nora Ephron con un Travolta in chiave
femminile nelle vesti di Rie Rasmussen.
È evidente che la commedia “Michael”
del 1996 ha pesantemente influenzato “Angel-A”, e che in realtà - anche
se forse nessuno lo ha detto - il suddetto film americano è l’unico veramente
simile a questo ultimo di Besson, con la figura di questo angelo quasi pagano
che scende sulla Terra per aiutare un disgraziato e trasgredisce al suo ordine
deontologico pur di farlo fino in fondo.
Si può quindi dire con
tranquillità che si tratta di un gran misto di elementi conosciuti, ma non è
una grossa colpa: Besson ha detto che ha voluto fare un film leggero, un’opera
gradevole in una fase estemporanea nella eterna scrittura del suo prossimo film
pare da 70 milioni di dollari. Le pretese non erano eccessive, quindi, fin dal
principio. Saggiamente, il regista non ha mai negato che il vero pretesto del
film fossero le inquadrature - da lui molto ricercate anche nei film del
passato - e con loro l’omaggio alla
Parigi cosmopolita di oggi con due personaggi che di francese non hanno nulla
(una palesemente scandinava e uno palesemente nordafricano) e valorizzati dallo
sconosciuto direttore della fotografia Thierry Arbogast.
La tipicità della storia è dunque
compensata da altri elementi. L’unico vero difetto è che Besson costringe come
sempre gli attori a gesticolare e a istrioneggiare troppo, mentre nei dialoghi
dovrebbe limare anche il banale lato umoristico che invece da sempre alimenta
nei suoi film. Non sarà importante, ma davvero non capisco per quale motivo
questo regista insista nell’inserire nei suoi film una delle battute più deboli
mai sentite al cinema. Alludo allo scambio verbale: ““Non ripetere più okay,
okay?” “Okay””. L’avevamo già sentita in un dialogo tra Jean Réno e Nathalie
Portman nel film Lèon del 1994 ed aveva già un sapore vecchio; ora la
sentiamo riciclata in Angel-A, si vede che il regista ne è davvero
orgoglioso. D’altronde l’insistente aspetto ironico dei suoi film è rimasto
fermo al gusto del cinema USA anni ’80, quando l’autore aspirava
spasmodicamente al titolo di “regista più americano d’Europa” come fosse
davvero un fiore all’occhiello.
La sua affannosa ricerca del
consenso popolare e del pubblico USA lo ha sempre spinto a forzare la mano
rendendo stereotipati i suoi personaggi. Addirittura, qui, per omaggiare gli
USA, arriva a rendere ‘americano’ persino un personaggio algerino, munendolo di
carta verde e di un fantomatico attico a Manhattan!
Comunque rispetto al passato i
suoi dialoghi e le psicologie da lui tratteggiate hanno subito un
miglioramento, e la cosa emerge anche in considerazione del fatto che qui
mancava totalmente il vero punto di forza del suo cinema, ovvero l’azione.
Besson ha voluto cimentarsi, oltre che con le immagini sofisticate, anche con i
“contenuti”. E, considerandosi di lui, non ci si può certo lamentare.
Giovanni Modica (recensione fatta nel marzo del 2006)
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