venerdì 8 marzo 2013

CONFIDENZE TROPPO INTIME di Patrice Leconte

Cinema e psicanalisi. Un rapporto lungo e destinato a durare nel tempo senza distinzioni di generi o di mode. Il suo alfiere più illustre, Woody Allen, tratta il tema con distacco e leggerezza fino ad avvicinarsi allo sberleffo, ma è noto a tutti che in fondo è solo un’apparenza: lui stesso non fa mistero di crederci. Patrice Leconte, al contrario, non lo tratta affatto con leggerezza; ma non ci crede e lo dimostra. Naturalmente sono lontano da voler fare un qualche parallelismo su questo argomento tra due registi così diversi su tutto, vuoi perché Allen ha imbastito buona parte della sua carriera su di esso con conseguente arricchimento del suo personaggio, vuoi perché Leconte, nel suo CONFIDENZE TROPPO INTIME in realtà non parla affatto di psicanalisi. Non parlandone, però, fa emergere in modo sottile ma chiaro tutta la sua diffidenza: non si ha bisogno della particolare competenza di uno specialista per riuscire a districarsi dai propri problemi interiori, ma solo di una figura che ascolti non pensando alla risposta da dare nè posando l’occhio sull’orologio a muro ogni mezz’ora, semplicemente di qualcuno che si lasci trascinare dalla curiosità umana per un mistero personale che forse non vuole nemmeno tentare di risolvere.
Questa è l’esperienza che capita ad Anna (Sandrine Bonnaire, in una prova sapientemente minimalista), che dopo aver sbagliato (?) ingresso, porta sfoghi e confidenze all’interno dello studio di un fiscalista (sì, ormai è accertato: anche loro hanno un’anima), il quale dapprima travisa e poi, a fine ‘seduta’, non ha il coraggio di farle notare l’errore commesso ed anzi non obietta quando lei prenota di sua iniziativa la seduta successiva. Il problema della donna ha a che fare con il ‘male del secolo’: nella moderna società occidentale in cui neppure il panettiere ha più voglia di parlare del tempo col cliente, come può la moglie di un marito invalido e chiuso in se stesso trovare orecchie per le sue ansie? In poco tempo il problema di Anna si fa meno vago e soprattutto meno ‘sociale’ visto che, tra una sigaretta e l’altra, viene fuori che suo marito non solo non le parla ma non la tocca nemmeno più, che è semi-impotente per causa sua e che ha delle idee per superare il suo blocco abbastanza singolari. Fin dalle prime il fiscalista la ascolta rapito, ed anche dopo averla informata del disguido constata con rinnovato stupore che Anna non vuole proprio saperne del vero psicanalista. …Ma che vuole comunque continuare la terapia!
Come si evince da queste righe, la storia non è tanto incentrata sull’idea dell’analisi quanto su un classicissimo problema di rapporti di coppia, che è il vero cuore di questo ambizioso film con cadenze musicali da mystery (coinvolgenti come sempre in Leconte) e trovate visive piuttosto ‘noir’ (come le nuvole di fumo in primo piano che si alzano dalla sigaretta di lei). Inutile dire che la quasi-terapia di Anna funzionerà, aiutata da circostanze fortuite e situazioni che vengono innescate dal commercialista (intensi gli occhi sbarrati e la bocca semiaperta del semisconosciuto teatrante Fabrice Luchini) senza che lui faccia assolutamente nulla se non dare consigli inascoltati. Finchè la situazione non gli si risolve intorno da sola e l’onda positiva si estende fin anche alla sua sfera privata dissestata.
Si potrebbe dire un film sulle fatalità, o anche una potenziale commedia convertita al dramma: comunque non sbaglieremmo.
Gustosissimo il confronto tra il fiscalista e il vero psicanalista, dalla cui bocca viene una frase demistificatrice degna di passare alla Storia (e che scatenerà l’invidia del più noto manhattanese del Cinema): “In fondo noi ci occupiamo della stessa cosa: di ciò che si dichiara e di ciò che si nasconde”. Memorabile la scena dell’uomo in analisi per problemi di claustrofobia che viene aiutato con successo a fare dei piani in ascensore da Anna, che ridicolizza così la fallimentare cura del professore, che la osserva da lontano scuotendo la testa. Abbastanza trito invece lo stereotipo dell’uomo “di cervello” in giacca e cravatta (William, il commercialista) contrapposto allo ‘scemone’ delle palestre (il nuovo compagno della sua ex moglie).
Ora dovete perdonarmi: so che non sarebbe giusto farlo, ma ogni cinefilo che segue le poetiche degli autori non può fare a meno di confrontare l’ultima opera di un regista con la sua precedente. …E qui c’è da dire che, dopo il toccante L’uomo del treno, con cui era entrato con originalità nei semi-inesplorati binari dell’amicizia maschile (gli amori gay sono di certo più rappresentati della semplice amicizia), Leconte sceglie di tornare sul più battuto terreno del rapporto uomo-donna, con conseguente rischio di ripetitività. In una scena di questo film si riaffaccia il tema del rimpianto che era il nucleo centrale del suo gioiello di un anno fa, ma solo in modo appena accennato; eppure risulta comunque essere uno dei pochi momenti davvero coinvolgenti di questa storia così cerebrale, con il commercialista che, in un rovesciamento di ruoli, di fronte ai suoi giocattoli d’infanzia racconta alla sua ‘paziente’ i suoi sogni abbandonati in favore di un’esistenza tanto decorosa quanto grigia. È chiaro che non si può ripetere sempre lo stesso film, eppure è un peccato che Leconte non abbia voluto ampliare questo tema a lui così congeniale anche nel suo ultimo lavoro, preferendo privilegiare uno dei plot più classici che esistano. È evidente che fa di tutto per supplire alla tipicità della storia, a cominciare dalla creazione di un clima sospeso, con escamotage tecnici come inquadrature mosse e una macchina da presa vistosamente tremante a creare pathos durante i dialoghi non facendo però sempre un buon servizio all’espressività degli attori.
Eppure, come accennavo poc’anzi, a mio avviso quel che resta del film è proprio l’elemento secondario e apparentemente marginale della vicenda, ovvero questa certa idea di poter risolvere i tanti problemi dell’anima con una peculiare forma di ‘autoterapia’ da sostituire ai distaccati e spersonalizzanti metodi tradizionali: aprirsi con qualcuno che si fa soggetto passivo, una pura spalla su cui appoggiarsi per iniziare a vedere le cose in un’altra ottica.
Un film elegante come tutti quelli firmati da Patrice Leconte ma diseguale nei tempi, se mi consentite un’ideale e forse antipatica distinzione tra una prima parte piuttosto avvincente ed una seconda un tantino troppo lenta. Rimane comunque una storia affascinante per chi accetta di seguire le vicende dei personaggi più per il “mood” con cui vengono presentate che per sapere come vanno a finire (ecco un’altra differenza rispetto a L’uomo del treno, dove si trepida fino alla conclusione) e per chi si vuole abbandonare allo scorrere delle immagini e dei dialoghi, semplici come le vite ordinarie che il regista francese ama raccontare con sempre viva partecipazione.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel dicembre del 2004

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