lunedì 11 marzo 2013

L’OMBRA DEL DUBBIO di Alfred Hitchcock

Con l’aggettivo ‘seminale’ solgono definirsi solo alcuni film nella storia del cinema, e non sempre si tratta dei titoli rimasti incisi nell’immaginario collettivo. Spesso si tratta infatti di opere minori o di relativo successo, ma che hanno posto solide basi per nuovi filoni, tendenze e topoi all’interno della settima arte. Come definire altrimenti Shadow of a Doubt, (it: L’ombra del dubbio, 1943), nientemeno l’opera di cui il celebre Alfred Hitchcock andava maggiormente orgoglioso? Tra i film del regista, si può azzardare un paragone solo con Delitto per delitto (per via dello scambio di commissioni delittuose tra due personaggi, ripresa innumerevoli volte ispirandosi più al film che al romanzo di Patricia Highsmith da cui esso trasse la trama), o Psycho (per via dello sdoppiamento di personalità), ma in questi casi si tratta di film celeberrimi e quindi non bisognosi di alcuna presentazione particolare. Ben diverso è il  caso del film di cui stiamo scrivendo ora: in L’ombra del dubbio la trama è riassumibile in poche righe, ma non è certo nella struttura che va ricercato il valore seminale del film. In questa storia, che vede il ritorno di un losco individuo, tale Charlie (Joseph Cotten, l’unico divo del film), in seno alla famiglia di Santa Rosa in cui era cresciuto e da cui si era distaccato molti anni prima, assistiamo alla rappresentazione di un assassino assolutamente inedita fino ad allora, dato che questo personaggio - un assassino di ricche vedove - è non soltanto il protagonista del film ma anche una persona dal comportamento e dall’eloquio del tutto rispettabile e perfino gradevole fino a circa metà pellicola. L’incipit del film ci porta a sospettare che i due individui (loro sì, in apparenza poco rassicuranti) che lo tallonano non siano altro che creditori se non addirittura malavitosi che vogliono vendicarsi per qualche ‘soffiata’ ai loro danni. In realtà, dopo almeno quaranta minuti di film, scopriremo che i due altri non sono che agenti di polizia, e che il tanto amato zio Charlie è tornato nella cittadina di Santa Rosa solo per rifugiarsi in un luogo insospettabile, dove non lo avrebbe cercato nessuno. Hitch, quindi, in questo suo primo lavoro di ambientazione americana, per la prima volta rovescia gli archetipi classici. Gli spettatori dell’epoca non erano abituati a vedere un cattivo nel ruolo di protagonista e per di più così approfondito sul piano psicologico; erano abituati a vedere i malavitosi come figure concentrate solo ed esclusivamente sui loro progetti nefandi, per nulla propensi a discorrere su temi generali della vita in modo spicciolo e quotidiano. Non erano abituati ad affezionarsi al Male. Tutto ciò rende L’ombra del dubbio un film altamente spiazzante con un meccanismo di tensione a lenta carburazione, quasi un cross-over tra la commedia della prima mezz’ora – data dal confronto tra i simpatici personaggi della famiglia e il nuovo ospite – e il dramma che caratterizza il prosieguo della storia.
   In particolare, dal momento in cui la nipote Carla viene a conoscenza per la prima volta del passato dell’uomo leggendo un articolo in emeroteca, assistiamo a una metamorfosi progressiva di contenuto e stile. Da quel momento in poi, infatti, il clima del film si fa più teso e sulfureo, i commenti di Charlie sulla vita sempre più ficcanti e maligni, come ad esempio una sua considerazione rabbiosa contro il fenomeno sociale delle ricche vedove che dopo la morte dei loro consorti dissipano nel vizio i risparmi accumulati in una vita dai loro mariti. Ed è proprio in questo discorso, tenuto a cena di fronte all’intera famiglia, che mostra tutta la sua vera personalità; a quel punto noi spettatori sappiamo già cosa egli aveva fatto, e sappiamo perfettamente come interpretare le sue parole. Charlie è un ambiguo giustiziere con una sua morale distorta ma precisa, in bilico tra l’ansia di fare giustizia e l’opportunismo più criminale che possa esistere. L’intento dichiarato di Hitchcock di voler shoccare l’ingenuo spettatore dell’epoca mostrando l’insediamento di una serpe in seno a una famiglia perbene è esemplificato per intero in questa singola scena.
   Lo svincolo narrativo determinante lo abbiamo quando in città giunge l’erronea notizia che il famoso “assissino di vedove” è stato ucciso mentre tentava di scappare. Come detto, la nipote Carla è l’unica a sapere che in realtà il vero colpevole non era l’uomo di cui parlano i giornali ma colui che fino a un giorno prima era il secondo indiziato, ovvero suo zio, e ne ha conferma notando le iniziali di una delle vedove uccise incise sull’anello che lui le aveva regalato, non può tuttavia  informare la polizia del fatto finché lui rimane nella sua casa per non suscitare lo scandalo della città intorno alla famiglia (siamo nel 1943). Logicamente lui, sapendo questo, se ne guarda bene dal lasciare il luogo. Tuttavia l’uomo decide di non fidarsi troppo della salvaguardia del ‘buon nome familiare’ ventilata da Carla e cerca invano di ucciderla in un paio di occasioni. Con uno stratagemma, allora, finge di voler partire con l’unico fine di trattenere sul treno la nipote e scaraventarla dal mezzo poco dopo la partenza. Ma nella colluttazione Carla ha la meglio ed è lui a venire scaraventato fuori e travolto da un altro treno. In linea con il suo humour nero, il regista ci mostra la scena sovrapponendole le immagini di un giro di valzer sulle note de “La vedova allegra”.
   Tutto torna come prima: a Santa Rosa l’uomo sarà pianto come vittima di una disgrazia, e la ragazza tiene tutta la verità nascosta per non turbare l’ambiente e soprattutto per proteggere da un’atroce delusione l’affezionatissima madre. Coerentemente, la parte oscura della famiglia resta sepolta nell’oscurità.
   Degno di nota è il divertente svincolo narrativo che vede a più riprese, e per la durata di tutto il film, il padre di Carla Joseph intento a discutere con Herbie, un suo amico appassionato di gialli, su quale sia il modo più pratico per uccidere la gente: egli sostiene che gli autori europei siano ‘troppo fantasiosi’ e scelgono modi poco pratici e eccessivamente contorti per uccidere. “Niente è funzionale più di una bella botta in testa!”, è l’obiezione più classica di Joseph. Autoironia per eccellenza, considerato che l’autore europeo Alfred Hitchcock è il più famoso inventore di delitti macchinosi che si abbia in cinematografia.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel novembre del 2012)

TEXAS di Fausto Paravidino

Basso Piemonte: tra miti esotici e realtà terrena vivono gli sclerotizzati abitanti di un paesino in cui le vite di un gruppo di adolescenti in contrasto coi genitori si intrecciano con quelle di una coppia quarantenne. La causa sono le ‘debolezze’ una maestra per un ragazzo del gruppo. La tensione tra il giovane e il fidanzato di lei cresce fino a sfiorare una tragedia. Ma non è che una storia come tante, e la vita deve andare avanti. Anche se tutt’altro che in modo sereno. 

Il profondo nord visto dal di dentro. Siamo dinnanzi ad un film imperfetto ma dotato di un indubbia forza. Fausto Paravidino non è un emergente per la tv (“Cefalonia”), ma nel cinema il suo nome ancora non è decollato.
A tal proposito, è sempre un rischio vedere un film italiano di un nuovo regista o quasi, ma se si decide di farlo bisogna comportarsi non come uno spettatore della domenica ma come un vero cinefilo: vale a dire che se non si sopportano i primi 30-45 minuti bisogna resistere alla tentazione di andarsene pensando di aver già capito tutto e continuare a seguire con interesse.
Qui ad esempio sulle prime pare di trovarsi di fronte a un’ennesima commedia amara adolescenziale in puro stile Muccino con tanto di contorno di “adulti” in crisi esistenziali. Nonché dinnanzi a un film sulla pseudo-trasgressione giovanile da sabato sera settentrionale, montata e recitata alla maniera dei film di Luciano Ligabue, ma con l’aggiunta di colossali rutti e ubriacature tipici delle zone padane. Il ritratto, pur veritiero nel suo desolante anche se ironico contenuto, sapeva quindi di già raccontato, e da un momento all’altro ci si sarebbe aspettato qualche riferimento facile alle stragi del sabato sera.
Ma c’è sempre un “ma”. 

Un apporto alla sterzata del film lo da decisamente il personaggio di Valeria Golino, che in effetti innesta tutta la vicenda narrata a ritroso e in modo frammentato dal regista qui anche nelle vesti di attore nel ruolo di Enrico.
Il suo personaggio è la classica donna della discordia all’interno di un piccolo paese, ma la sua situazione è descritta senza banalità, evidenziando il contrasto tra la rozzezza dei censori del suo comportamento “confidenziale” con un adolescente - considerato disdicevole per un’insegnante come lei - e la finezza di lei. Certo, la maestra pecca di infedeltà nei confronti del suo uomo, ma non è tanto questo il punto che scatena le maldicenze quanto l’età anagrafica del suo pupillo, anche lui fedifrago. Il padre del giovane, un uomo con aspirazioni politiche, contribuisce suo malgrado a pubblicizzare la cosa. Qui emerge con forza quanto tra nord e sud certe vedute si equivalgano. 

A metà proiezione si ha addirittura una perla di saggezza, un momento in cui Cinzia (la ragazza ufficiale del ‘pupillo’) descrive a un amico del gruppo la sua famiglia partendo dai dettagli della sua/loro casa, un’abitazione piena di trasandatezza e di vetri rotti rappezzati con lo scotch da anni. Il suo interlocutore le fa notare che forse è una questione di povertà, ma lei sgombera il campo dagli equivoci, spiegando che non sono i soldi a mancare ma che si tratta di una vera forma mentis, o meglio di “una cronica disattenzione per tutto ciò che è considerato superfluo nella vita”; per cui quando lei fa una domanda a sua madre riguardo all’amore per suo padre, lei le risponde “Siamo sposati...” e riguardo all’affetto per lei: “Sei nostra figlia…”. Scambiando le sfumature con il superfluo, i genitori l’hanno spinta quindi ad apprezzare il divertimento scomposto del suo nuovo  gruppo di amici con tutti i suoi aspetti anche degradanti (ma questo aggettivo non viene espresso).
Texas evita di cadere in un altro tranello nel finale, quando si crede di stare per assistere ad un duello-con-vittima anche in virtù del metaforico titolo. Qui si resta spiazzati perché non solo non ci scappa la consumazione della vendetta, ma non si ha nemmeno un diverbio. Resta un eloquente  silenzio che stempera la drammaticità in malinconia.
Intelligente e realistica la reazione del personaggio di una ragazza del gruppo che viene stuprata da un amico, anche questa priva del ‘botto’ che ci si aspetterebbe da un film. 

Riguardo agli attori va detto che non tutti erano “in ruolo”, nel senso che Iris Sposetti/Cinzia (anche coautrice del film) è palesemente più che trentenne e stride col resto del cast. Riccardo Scamarcio è l’attore forse meglio avviato fra i nuovi volti, e il suo sguardo tenebroso l’abbiamo già conosciuto nell’incisivo ruolo del Nero nel bel Romanzo criminale di Placido. La mia percezione è stata che le ragazze in sala fossero lì per lui.
Come già detto, Valeria Golino - unica star - fa un buon servizio al film con un personaggio in cui sembra trovarsi a suo agio.
In definitiva un film da non trascurare, maggiormente riuscito nella sua parte drammatica rispetto a  quella grottesca iniziale. 

Presentato al Festival di Venezia 2005

Giovanni Modica (recensione fatta nell’ottobre del 2005)

sabato 9 marzo 2013

FALSE VERITÀ di Atom Egoyan

Atom Egoyan: un regista con diverse corde al suo violino. Credevo di averlo inquadrato in uno stile fluido ed elegante ma lineare con il noiosissimo Exotica e il sorprendente Il viaggio di Felicia. Mi manca ancora Il dolce domani per poter dire qualcosa di più completo sul suo conto, ma intanto che colmo questa lacuna (cosa che a questo punto per me diventa d’obbligo…), mi focalizzerò strettamente su questo film, dallo stile molto meno intellettuale degli altri. Meno intellettuale chiaramente non sta a significare meno intelligente bensì solo meno “intimista”. Anzi questo thriller del regista canadese è quanto di più intelligente possa esserci al cinema oggi, e rappresenta una vera sfida alla concentrazione dello spettatore, trattandosi di uno di quei film che se ti alzi dalla sedia un momento per andare in bagno rischi di perdere qualcosa di determinante. Più che di semplice thriller, si tratta della più intrigante frangia del genere giallo propriamente detto, inteso come murder-mystery e per di più senza la presenza della polizia.
Affastellamenti, depistaggi apparentemente farraginosi che confluiscono sorprendentemente in una soluzione lineare che lo stile del film apparentemente escluderebbe fin dai titoli. Se vi piacque Chinatown, non potete perdere questo film; se cercate balzi sulla sedia invece vi consiglierei di orientarvi altrove.
Siamo sul terreno dell’hard-boiled in un contesto temporale insolito (va dagli anni ’50 ai ’70).
Kevin Bacon, Colin Firth e Alison Lohman (costei l’abbiamo vista in un ruolo da finta adolescente ne Il genio della truffa di Ridley Scott) sono a pari merito i protagonisti del film, impedendo allo spettatore un’immedesimazione totale con qualcuno di essi.
Anni ’70: Lenny Morris (Kevin Bacon) e Vince Collins (Colin Firth) sono due ex conduttori umoristici di molte fortunate edizioni di Telethon di vent’anni prima. Una casa editrice molto accorta decide di rispolverarli per cavalcare la moda dei personaggi di una volta che si raccontano senza pudore alcuno. Così, per questo compito viene scelta Karen, una ragazza che da piccola partecipò come ospite ad una puntata del programma dei due in qualità di persona guarita grazie ai fondi della trasmissione. Karen si ricorda di una frase molto dolce e commovente detta a lei senza microfoni da Lenny, e anche per questo vuole fare luce sulla sordida vicenda di una donna trovata morta dopo avere avuto rapporti con lui in un albergo. Il caso fu all’epoca quasi insabbiato. C’è di mezzo di tutto: droghe, collusioni con la mafia e vizio, ma il modo con cui lei conduce le sue indagini è ingannevole finché il suo “gioco” viene a galla e lei stessa viene ricattata.
Per una cosa mi trovo pienamente d’accordo con un giornalista di un noto quotidiano che sostiene che per uno spettatore particolarmente attento – ma particolarmente! – non è impossibile indovinare CHI ha creato la situazione. Ma il movente è tutt’altro che immaginabile! Così come non immaginabile è la parziale estraneità sia di Lenny che di Vince. Ma di più non mi sento in diritto di svelare…. Il finale è dolceamaro come nel già citato Chinatown.
 
Le musiche di Mychael Danna sono, come da tradizione nella filmografia del regista, tutte di stampo “herrmanniano”. Nessuno se ne è mai lamentato e quindi la recidività di questa scelta è giusta.
Le scene migliori? Tutte quelle ambientate nella stanza di albergo che rappresenta il fulcro della vicenda criminosa e quelle all’interno della mastodontica villa di Vince. Si sa che le droghe sono sempre state una buona e facile occasione per fare dimostrare a un regista il suo talento con immagini divertenti sia per chi le gira che per chi le guarda, a meno che non si esageri. Egoyan non aveva bisogno di dimostrare il suo virtuosismo, ma ha fatto bene a sbizzarrirsi con luci e montaggi alternativi perché anche i neuroni dello spettatore a un certo punto devono riposarsi e lasciare il posto alla gioia degli occhi. Gioia degli occhi anche per ciò che viene mostrato (almeno per uno spettatore maschio), visto che si rappresentano soprattutto scene di sesso tra due belle donne. Non dettagliate. Lo voglio specificare, consapevole che a qualcuno potrebbe non piacere uno spettacolo lesbico. L’implacabile censura USA non ha perso l’occasione di criticare queste scene. Ma Atom  non è un pornografo; e poi ricordiamoci che nonostante il film sia co-prodotto dagli States, la sua cultura è canadese.
Quindi il merito di Egoyan non sta tanto nelle splendide scene con cui ha descritto il film, cosa per lui usuale, ma anche e soprattutto in un elemento meno scontato che è l’ossatura dell’opera: una trama come questa, tratta dal romanzo “Where the truth lies” di Rupert Holmes, era estremamente difficile da riassumere in due ore di film. Certo merito anche dell’addetta al montaggio Susan Shipton, ma il regista è stato anche curatore della sceneggiatura, ed il risultato è straordinario.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nell’aprile del 2006)

MI PRESENTI I TUOI? di Jay Roach

Ho sempre pensato che sia estremamente più facile scrivere una recensione molto accurata che fare un brutto film. Pertanto vado sempre coi piedi di piombo nel giudicare negativamente quel che ritengo essere comunque un’‘opera dell’ingegno’. E anche quando non sono soddisfatto di quel che ho visto, cerco di evidenziarne i pochi (per me) pregi che vi scorgo.
Ma, voltando pagina… a chi giova uno che scrive solo elogi?
Comincerò con la stessa frase che ho speso per commentare le mie pellicole preferite (Volevo solo dormirle addosso e 36 - Quai des orfévres) fra quelle viste da quando ho iniziato questa estemporanea attività di recensore, e cioè più o meno: “Era da tempo che non si vedeva un film così…”. Ma proseguirò in modo diverso.
Era da tempo che non si vedeva un film così indifendibile e irrispettoso nei confronti di un pubblico giovanile, che pur si accontenterebbe di poco (come del primo, già mediocre Ti presento i miei, dopo il quale non sarei andato a vederne un seguito senza la spinta di un amico). Ciò che ho visto supera le mie peggiori aspettative e mi spinge ad affiancare idealmente quanto a vuotezza questo film ad un’altra debolissima commedia di pochi anni fa dal titolo Storia di noi due con Bruce Willis e Michelle Pfeiffer.
I film con Ben Stiller hanno ormai il marchio di fabbrica di un trash praticamente identico alle nostre commediacce d’annata con Alvaro Vitali, che oggi vengono ingiustamente rivalutate al pari dei film di Mario Bava.
In “Mi presenti i tuoi?” è più che evidente che si è voluto tirar via su tutto, facendo leva esclusivamente su due cose: l’ottimo riscontro di pubblico del primo film e il cast stellare incastrato dai produttori in nome di tale successo. Questa sfilacciatissima pernacchia cinematografica è costruita su una trama priva di fantasia, che riassumerò facilmente in poche parole; tanto ciò che vi è in mezzo è costituito da pura noia e scontate, forzatissime battute.
De Niro e moglie decidono di conoscere, insieme a genero e figlia, i loro consuoceri (i Fotter: Hoffman e Streisand) scoprendo che si tratta di due zotici erotomani, con credo e abitudini opposti ai loro. Poco dopo De Niro scopre che forse il genero (ovviamente Stiller) ha un figlio segreto nato quindici anni prima da un rapporto con la ex domestica di famiglia. Dopo essersi ricreduto grazie alla prova del dna, il diffidente De Niro rivaluta l’intera famiglia dei Fotter. Anche perché la Streisand, riabilitatrice erotica di arzilli vecchietti tramite danza, era stata di grande aiuto ad un anziano giudice con cui lui e Hoffman si sono trovati ad avere a che fare per colpa di un poliziotto troppo zelante.
Quel che si vede nel frattempo è un collage di raffinatissime gags a base di prepuzi conservati dopo la circoncisione che cadono nella zuppiera, segreterie telefoniche che parlano di flatulenze, cani che vengono risucchiati nel w.c. e salvati per miracolo, e via discorrendo.
Perdonatemi se ho scelto per questo commento toni più ‘personali’ e soggettivi del solito a scapito di un approccio più assoluto e di ampio respiro, ma mi sembrava giusto così, dal momento che non si tratta propriamente di un elogio.
Il parlare di questo film mi da l’occasione per fare una considerazione sul confronto che un noto settimanale ha voluto fare fra i lavori dei cosiddetti ‘tre tenori del cinema’ che stanno contendendosi in questi giorni i favori del pubblico: la mia personalissima opinione è sempre stata che De Niro e Hoffman siano superiori a Pacino. Ma va detto che il nuovo film che vede quest’ultimo protagonista (Il mercante di Venezia), per quanto non perfetto, ha l’indubbio pregio di essere Cinema.
Mentre dal mitico De Niro, ormai, mi aspetto che continui a interpretare il Jack della saga dei Fotter con nonchalance fino ai prossimi cinque anni, visto che lui ha affermato che non gli dispiace affatto essere identificato dal pubblico giovanile con quel personaggio.
Può darsi che non sia il mio genere, ma altre commedie non particolarmente sofisticate come Starsky e Hutch (sempre con Stiller), se non altro due risate me le avevano fatte fare. Era chiaro che qualcuno si era sforzato per scrivere un copione il più possibile divertente.
A volerla dire tutta anche l’unico momento davvero comico di questo film deriva indirettamente proprio da Starsky e Hutch, visto che nel finale abbiamo la sorpresa dell’arrivo in scena in tono divistico di Owen Wilson in veste di special-special guest star! Il fatto di stupire il pubblico con il trionfale cameo di una tale ‘celebrità’ in un film che vede protagonista il trio De Niro-Hoffman-Streisand ha effettivamente un ché di esilarante. Comprensibile però la consapevolezza degli autori che la commedia poliziesca con Stiller e Wilson sia un caposaldo della cinematografia rispetto al loro lavoro.
Nel quale, oltre a informazioni curiose che mostrano il pentotal come “siero della verità” (sic), si nota una trasandatezza registica che avrebbe dovuto essere evitata almeno in nome delle fulgide carriere dei tre attori principali. Per dirne una, ho notato una cosa mai vista nei primi 1.000 film circa da me visionati nelle sale: in almeno due scene fa vistosamente capolino dall’alto un grosso microfono come - in alcuni rarissimi casi - nelle vecchie edizioni in vhs in ‘open matte’ (eliminazione delle barre di copertura ai margini orizzontali) che non erano certo state avvallate dai registi dei film pubblicati. Buona la prima!
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2005)

CHRISTMAS IN LOVE di Neri Parenti

Il mio sprezzo del pericolo mi porta periodicamente a dare fiducia a chi viene, spesso giustamente, bastonato dagli osservatori più ‘colti’.
L’ultima volta che ho visto un film con Boldi e De Sica al cinema è stato all’epoca di A spasso nel tempo, e devo dire che all’uscita dalla sala mi sono seriamente posto un dubbio sul quoziente intellettivo (non me ne vogliano gli estimatori di quel film) di quei miei connazionali che vanno al cinema una volta l’anno solo per vedere una cosa del genere, che percepivo come una mancanza di rispetto per lo spettatore.
Sono passati più di dieci anni e, aiutato nello spirito dalla presenza nel cast di Danny De Vito, dalla presentazione del film come ‘meno farsesco’ e più ‘situazionistico’, nonché dalla diceria che fosse condito da minor turpiloquio, questa volta ho deciso di riprovare a vedere una pellicola di questa indistruttibile premiata ditta che ormai si è ritagliata uno spazio come realtà duratura del costume cinematografico nostrano.
In precedenza, fra i film del filone che avevo visto soprattutto in televisione, confesso che qualcuno mi aveva anche divertito (un poco Yuppies-i giovani di successo, abbastanza Sognando la California e Vacanze di Natale ’95), quindi non voglio propinarvi la balla di essere andato a vedere questo prodotto per constatare fino a che punto di decadenza eravamo arrivati (e poi chi ci crederebbe?)!
È evidente che non è un film di regia, né di attori, ma puramente di sceneggiatura, e devo ammettere che, per l’occasione della presenza del grande (in senso di importanza) De Vito, il team ha giganteggiato. Queste cose vanno dette. Perché se nessuno lo fa, gli autori di certi lungometraggi, in assenza di riscontri da parte di chi si reputa più esigente - ma è chiaro che il compito spetta soprattutto ai critici veri e propri - ricominceranno a sfornare mediocrità come il Vacanze di Natale ’91 in cui era stato coinvolto anche il povero Alberto Sordi. Tanto per il grosso pubblico, a quanto pare, è esattamente la stessa cosa.
A parte Danny De Vito l’unico bravo del cast è, come sempre, Massimo Boldi, attore che fosse capitato negli anni ’50 sarebbe stato valorizzato a dovere, carico com’è di quella vena surreale, di quella voce e di quelle espressioni che in uno sketch televisivo bastano da sole a fare scattare una sana risata, come direbbe Dario Fo, di tipo ‘ventrale’; ma che di sicuro, all’interno di un film intero, non potrebbero mai bastare senza qualcosa di più ricercato. Per aiutare i più refrattari a riconoscere il talento poliedrico di Boldi, ricordo volentieri l’unica prova drammatica della sua carriera, quel Festival di Pupi Avati che, costituendo l’unico fiasco commerciale dell’attore, spinse quest’ultimo - più sensibile alle logiche degli incassi che a quelle artistiche - a non dare più seguito a questa svolta.
De Sica fa come al solito la pallida imitazione di Sordi, mettendoci ogni tanto un che di suo padre in versione attore, con in più il suo classico sovraccarico di smorfie. Sarebbe anche lui un discreto interprete se si lanciasse di più in ruoli drammatici simili a quelli di una fiction Rai di poco tempo fa… ma lui si ritiene un comico, e in questo genere, checché ne dicano lui e il suo pubblico, sarebbe meglio lasciasse fare alla sua storica spalla più in carne.
Allora cos’è che funziona veramente in questo film? Il soggetto, che si rivela decisamente molto al di sopra non solo dei film della serie ma anche della produzione comica media italiana di oggi. Non c’è solo mimica o lazzi, ma anche costruzione. Le parole volgari sono ben più di una, ma non arrivano (quasi) mai ad essere fini a se stesse. I tanti equivoci non sono scontati, e ci sono almeno due sorprese nella trama. Il  finale magari è un tantino cinico, ma non arriva a togliere quel sapore di commedia brillante quasi americana che pervade lo scoppiettante film. Contribuisce a questo clima anche la canzone, che riprende anch’essa - e non solo per il suo suono rétro - una tradizione dimenticata da anni in Italia: il brano fatto apposta per il film! Presente nei titoli di testa e in quelli di coda, questo pezzo scritto da Tony Renis racchiude come una luccicante cornice jazz o come un fiocco rosso natalizio questa commedia fatta di bollicine e fuochi d’artificio.
Certo, fosse stato concepito negli anni ’50 o primi ’60, questo film avrebbe dovuto rivaleggiare con ben altri tipi di commedie made in Italy… ma nel 2004/2005 sembra quasi un miracolo divertirsi dall’inizio alla fine di un film senza pesanti cadute di stile ed eccessi di surrealità.
 
L’ambiente è la Svizzera, e la storia è composta da tre episodi intrecciati. De Sica e la Ferilli sono due chirurghi plastici che un tempo furono coppia e che hanno giurato odio eterno l’uno nei confronti dell’altra, cercando di evitarsi (invano) anche nei luoghi da scegliere per le vacanze.
Boldi è un pilota - nonostante l’età, ma non sottilizziamo - all’apice del successo che prende una sbandata per la bellona (Alena Seredova) che gli consegna il trofeo, ed ha una figlia (la solita Capotondi, che dopo il film di Cappuccio è tornata al genere popolare) che s’innamora di un disoccupato più vecchio (De Vito) e più basso di lei di almeno 10 cm... . E Anna Maria Barbera, nell’episodio più debole del film, che vince un viaggio con Ronn Moss di “Beautiful”, espressivo come lo stucco.
Naturalmente le cose non rimarranno così come le ho descritte io qui sopra: ci saranno rimescolii totali e capovolgimenti di ruolo a non finire.
Il finale ha un effetto rewind che richiama quello di un vecchio film con Montesano dal titolo A me mi piace e può non essere di gradimento a tutti, ma se si entra nell’ottica dello sberleffo e si vedono i protagonisti come fossero personaggi tratti dai fumetti di Bonvi, il divertimento non si perde.
Tornando al cast, c’è da sottolineare che il mitico regista di La guerra dei Roses non si è affatto risparmiato, ed ha dato vita al suo personaggio con lo stesso fiato ed entusiasmo che riserva a  commedie ben più costose e di maggiore visibilità, rinunciando forse anche ad un compenso più elevato pur di lavorare nella sua patria d’origine. A tal proposito, bravo Aurelio De Laurentiis: per il cinema è giusto approfittare di questi sentimenti! Ronn Moss, come già detto in precedenza, dà il suo contributo con un’ideale $ scritta sulla fronte, ma gli si deve dare l’attenuante che gli è stata affiancata la Barbera, cosa che… ‘sconsolerebbe’ chiunque!
Per il pubblico femminile, forse Neri Parenti avrebbe dovuto chiedere di più a Moss, come, che so… un abbozzo di strip. Ma per fortuna ci pensa Boldi a compensare questa mancanza, con uno splendido nudo integrale (solo di spalle, purtroppo)! Se non vi basta, o donne che leggete, tenete conto che per il pubblico maschile non mostrano le loro grazie né la Seredova, né la Ferilli né la Capotondi. Per quanto riguarda la Barbera, siamo contenti che non faccia eccezione.
Da notare la superba interpretazione dello storico comprimario Enzo Salvi, decisamente la migliore della sua carriera, dal momento che questa volta non occupa nemmeno un fotogramma in pellicola.
La scena più divertente, da un punto di vista soprattutto visivo, è quella mostrata nei trailer, con Boldi che entra nudo con la Seredova in una stanza buia non sapendo che proprio lì era atteso da moglie, amici e parenti con la torta di compleanno pronta per lui; dando poi la colpa per il suo abbigliamento adamitico al caldo e usando come ventaglio proprio il quadretto con la foto di lui e sua moglie!
Neri Parenti si era quasi avvicinato a un miglioramento con l’ormai vecchiotto Infelici e contenti, ma per scontare le nefandezze della serie di Fantozzi ci vuole ben altro, e questa potrebbe essere la strada giusta. Coraggio!
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel dicembre del 2004)

MUNICH di Steven Spielberg

Con i recenti film di Pollack e Spielberg, il cinema USA ci ha voluto dimostrare che c’è ancora un genere in cui solo lui riesce ad eccellere: il filone spionistico-politico di matrice più o meno storica.
L’ultimo di Spielberg ha indubbiamente una matrice storica molto forte, pur se con gli inevitabili adattamenti, ma va considerato nella stessa categoria di The Interpreter, uscito sui nostri schermi pochi mesi fa: si tratta cioè di un film in cui politica internazionale, azione e conflitti interiori generano affreschi veritieri privi di freddezza documentaristica o di retorica. Qualcuno potrebbe pensare che la nobiltà di un film storico sia per definizione più alta di quella di un racconto  realistico ma di pura fiction come The Interpreter, ma secondo me sarebbe uno sbaglio in quanto gli intenti sono gli stessi: il voler focalizzare l’attenzione del pubblico verso realtà in apparenza lontane, e farlo con onestà, senza eccessi di violenza né edulcorazioni della stessa, così come senza ruffianerie buoniste e retoriche come quelle a cui ci aveva abituato in passato il buon Spielberg.
Con Munich il regista ha dato la sua prova più matura di tutta la sua fulgida carriera proprio perché ha rifuggito dai suddetti elementi spurii che sovente rovinavano il suo cinema, rendendolo talvolta irritante. Anche gli altri due suoi capolavori assoluti, ovvero Il Colore Viola e Shindler’s List avevano un surplus di melassa – nel primo caso – o di retorica – nel finale del secondo caso, che pur non scalfendo la bellezza di tali film, lasciavano perplessi.
Davvero, per uno spielberghiano poco convinto come me, questo è il film della rivelazione non in quanto sia il migliore (per quanto rientrante nella categoria), ma in quanto è il più equilibrato e corretto.
Il dosaggio degli elementi documentaristici e di quelli di azione o di dialogo è ineccepibile, e l’attenzione non cala mai durante le tre ore.
Qui il regista mette in scena solo gli elementi migliori del suo cinema. In fondo bastava poco: qualche strizzatina d’occhio in meno e arrivava alla perfezione. Ora ci è arrivato.
 
Una scelta felice è stato prendere attori non di fama eccessiva (qui in Europa degli attori visti nel film sono noti solo Mathieu Kassovitz e Valeria Bruni Tedeschi), forse per sottolineare la differenza di intenti che corre tra il suo filone serio e quello divistico-spettacolare del suo penultimo film (La guerra dei Mondi, con Tom Cruise). Questa sua eterna schizofrenia tra i giocattoloni e i film importanti e di grande respiro sarebbe un aspetto interessante da analizzare nella filosofia del regista: uno come lui se fa certe scelte non è certo perché “piegato” dalle majors o dal bisogno di incassare…
 
La storia non si incentra sul tragico fatto di cronaca accaduto agli sportivi israeliani alle Olimpiadi di Monaco nel ’72, ma su quel che accadde dopo: la ritorsione di un gruppo fintamente indipendente ai danni degli 11 terroristi di Settembre Nero. Questo manipolo di vendicatori è super-organizzato e supervisionato dal Mussad, ma deve comprare a caro prezzo ogni piccolo dettaglio extra, accettare compromessi da semisconosciuti che lavorano per tutti e per nessuno. Oltre, naturalmente, a far spendere moltissimo e a mettere a rischio la propria vita e quella dei familiari.
La vicenda è vista attraverso gli occhi di Avner (l’attore australiano Eric Bana, azzeccatissimo), il quale, molto abile a conquistare la fiducia di chiunque, col tempo scopre di essere lui a non doversi fidare di nessuno (ma proprio nessuno) in un crescendo continuo di paranoia e sospetto.   
Fra gli interpreti, quasi tutti maschili, oltre il bravo Bana, particolarmente carismatico è Daniel Craig, che impersona il sanguigno Steve, sempre trattenuto dai compagni dal manifestare gesti eccessivamente impulsivi e individuali.
Nel film brulicano le scene memorabili, ma per ragioni di spazio evidenzio solo le due più coinvolgenti: la prima è quando il capo del team si accorge che al telefono manomesso della vittima designata ha appena risposto non l’uomo ma sua figlia piccola, e corre freneticamente verso il resto del gruppo per fermare sul nascere l’esplosione che sarebbe stata generata da un contatto studiato dal “bombarolo” Kassovitz. Il suo tentativo disperato risulterà fruttuoso, e da allo spettatore un brivido da manuale. La seconda scena che voglio segnalare è - per intero - quella che vede Avner mettersi a rischio stabilendosi in una stanza d’albergo a fianco di quella dell’arabo da eliminare sempre tramite esplosione (“l’esplosione è meno sicura, ma fa più clamore”, si recita all’inizio del film). In tale frangente, oltre al protagonista, viene messa a serio rischio anche un’ignara coppia di turisti svedesi che si trovavano all’altro fianco del palestinese.  L’esplosione distruggerà gran parte dell’albergo in una scena particolarmente emozionante, anch’essa senza vittime innocenti. Certamente non sarà sempre così e le vittime innocenti fioccheranno, ed il team stesso subirà gravi perdite fino alla conclusione della sua attività.
 
Il finale è ambiguo: Avner si incontra a Brooklyn col capo del gruppo e mette in discussione tutto l’operato compresa l’onestà della loro stessa organizzazione. Le risposte che ottiene suonano sibilline, tra il cristallino e il ricattatorio. Come interpretarle? Avner conclude il suo dialogo con una risposta sarcastica e arrendevole insieme (“Ti invito molto volentieri a casa mia per cena questa sera. Veniamo dalla stessa stirpe!”), concependo come qualcosa di condizionante il suo essere ebreo. Ma il capo, dopo un moto di orgoglio, capisce e si allontana. Questo finale, oggettivamente, non vuole dare giudizi e si limita a far esprimere le posizioni dei due.
Ma i finali indefiniti scontentano sempre chi ha posizioni troppo marcate, ed è forse stata la semplice ombra del sospetto nei confronti del Mussad a fare accusare il film come filopalestinese dalle associazioni ebraiche USA. 
Sorvolando sulla risposta del regista (“Morirei per Israele”…ma per favore!), non è facile inquadrare il film come antisraeliano.
Forse il dubbio che si insinua in Avner nel finale serve a bilanciare anzi l’impressione che il film sia troppo orientato a favore della causa israeliana. In ogni caso non si può chiedere a un regista la spersonalizzazione completa da una vicenda – vera – che riguarda la sua Storia. Ciò comporterebbe la freddezza dell’opera. Ma a maggior ragione non lo si può accusare di essere traditore solo perché ha voluto mostrare i dubbi all’interno del Mussad e le idee opposte alle sue dal punto di vista di chi le vive.
 
Altra critica opinabile mossa oltreoceano: più che un film politico sembra un thriller, forse a causa delle forti dosi di suspense che riserva. Il sottoscritto ritiene che un film debba diversificarsi da un documentario, e d’altra parte anche il pluripremiato Titanic raccontava una tragedia vera con le armi dello spettacolo. La cosiddetta “spettacolarizzazione” delle vere tragedie, se fatta non a biechi fini economici, è un modo efficace per rinverdire un ricordo lontano in modo coinvolgente.
Munich meriterebbe di essere il pigliatutto agli Oscar di quest’anno. Ma non è facile a Hollywood scontentare le associazioni ebraiche.
 
Tratto dal romanzo “Vengeance - The True Story of an Israeli-Counter-Terrorist Team” di George Jonas.

Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2006)

ARRIVEDERCI AMORE, CIAO di Michele Soavi

Storia maledetta che più maledetta non si può: un ex terrorista rosso decide di percorrere la strada della riabilitazione. Ma paradossalmente, per poterlo fare deve compiere atti criminosi sempre maggiori. La sua freddezza lo aiuterà a raggiungere l’obiettivo anche a scapito di un’innocente: la sua anima diventa definitivamente sporca,  la sua fedina penale torna immacolata...
 
Quando si dice un film che, piaciuto o no, non si dimentica.
Ottimamente costruito, il coraggioso e amarissimo Arrivederci amore, ciao del redivivo Michele Soavi appartiene proprio a questa categoria di pellicole.
Il suo fascino sta soprattutto nel fatto che da una parte - per un’ora e mezza circa - ci mostra una vicenda accattivante per il grosso pubblico, piena di movimento, di colpi di scena e sequenze da torrido noir in cui sembra di poter inquadrare un significato preciso, e poi trasporta lo spettatore verso un finale tanto emotivamente coinvolgente quanto brusco, sgradevolissimo non per le immagini ma per la crudeltà manifestata del protagonista Giorgio (Alessio Boni), che arriva quasi inaspettata. Lo spettatore viene spaesato e brutalizzato attraverso il terrore della sua ultima vittima, con l’effetto - voluto - di rendere l’orrore ‘interiore’ del freddo assassino sconvolgente al punto giusto.
Certo, in questo modo ci sarà chi sconsiglierà il film agli amici, ma certe caratterizzazioni fanno indubbiamente bene al cinema, se non altro perché le cose rese in modo asettico non possono mai  sortire la reazione psicologica giusta a certe situazioni.
 
Per ottenere la riabilitazione da un crimine, l’ex terrorista Giorgio accetta tutti i compromessi che gli si parano di fronte, omicidi compresi. Tornato in Italia dal suo rifugio in Sudamerica proprio grazie all’assassinio a tradimento di un suo “alleato”, accetta di mettersi in combutta con un vicequestore della Digos corrotto che lo ricatta dapprima estorcendogli soffiate e poi coinvolgendolo in organizzatissime rapine insieme ad altri galeotti da destinare poi alla morte. Giorgio si serve della Giustizia e la Giustizia si serve di lui, consapevoli entrambi di essere l’uno lo strumento dell’altro, senza ingannarsi.
Per rafforzare la sua posizione di bravo ragazzo, Giorgio accetta il suggerimento di un faccendiere  industriale del Nordest (Carlo Cecchi) di trovarsi una ragazza da sposare in chiesa, cosa che piace molto ai giudici.
Filo conduttore nella vita di Giorgio è il ricorrere casuale della canzone “Insieme a te non ci sto più” di Caterina Caselli, brano legato al suo primo omicidio compiuto “per convenienza” ed amato dalla sua neo-moglie, la quale diventa via via un peso sempre maggiore perché non accetta menzogne e tradimenti rischiando di mandare in tilt la sua immagine minuziosamente ricostruita.
Stanco dei continui e sanguinosi ricatti di Anedda (questo il nome del vicequestore impersonato da Michele Placido, qui troppo gigione), Giorgio decide di eliminare il problema alla fonte. Tanto ormai la sua esperienza nello smaltimento dei cadaveri e nel cancellare le tracce è a prova di bomba.
Ora non gli resta che eliminare il problema minore, quello della moglie, e decide di farlo in un modo talmente lento (un avvelenamento tramite aspirina, visto che lei ne è allergica), da farci  dimenticare il parziale riscatto della sua onestà, raccontato in un flashback a metà film, che ci mostra come il primo omicidio da lui commesso fu in realtà involontario: la sua bomba non prevedeva la morte di un guardiano.
Illusi di potere parteggiare per Giorgio, gli spettatori vengono rimessi quindi di fronte ad un uomo che ha il cattivo gusto di coprire le grida della sua donna moribonda con le note della sua canzone preferita e della quale fa scrivere il titolo sulla corona funebre perché, dice: “non mi veniva in mente nient’altro..”.
 
Pur non togliendo niente al bravo Boni, forse la recitazione migliore è proprio quella di Alina Nedelea (l’interprete della moglie) che porta a termine in modo perfetto il ruolo più difficile del film.
Buona anche se scontata la selezione musicale. È ormai evidente, dopo La stanza del figlio e Manuale d’amore, che la canzone “Insieme a te non ci sto più” piace molto all’attuale generazione di cineasti, forse in virtù del fatto che uscì nel 1968.
Per quanto riguarda l’idea di legare una struggente canzone d’amore a scene di estrema sofferenza fisica, direi che anche in questo caso la lezione fulciana sull’effetto dirompente dei contrasti si è fatta sentire.
Soavi ha delle trovate molto interessanti: la disturbante e lunghissima scena degli ultimi momenti di vita della moglie si conclude con una visione distorta di Giorgio che, a causa dell’avvelenamento, viene percepito da lei come un essere gigantesco quando le si para davanti per impedirle di raggiungere la porta.
Ma geniali anche alcune idee buffe nelle prime scene, come quella di un cocainomane che tira la striscia bianca dall’incavo della schiena di una donna di colore nel locale notturno ‘controllato’ inizialmente da Giorgio.
Dal punto di vista strettamente tecnico, una menzione particolare merita il montaggio di Anna Napoli, a cui si deve il ritmo senza sosta del film.
 
Notevole è la scena di Alina Nedelea che si muove lentamente in mezzo ai propri capelli svolazzanti in preda agli effetti del farmaco, dichiarata citazione dell’analoga scena con Daria Nicolodi in Schock di Mario Bava del 1977.
 
Dunque l’ex regista di genere e già pupillo di Dario Argento si è definitivamente dato al noir politico e sociale, mantenendo però una vena visiva molto più spiccata rispetto agli ultimi lavori del suo ex maestro. Personalmente avevo sempre preso sottogamba Soavi considerandolo forse troppo stile anni ’80, con le sue trame bizzarre e traballanti e i suoi sfondi perennemente bui e notturni. Ma Soavi il trash di Deliria e del cult internazionale Dellamorte Dellamore – film che comunque aveva ottime trovate visive – se l’era già lasciato alle spalle all’epoca del magnifico film-tv Uno Bianca, con cui aveva mirabilmente piegato la nota squallida vicenda di cronaca nera in un sorprendente film d’azione al fulmicotone. Per me fu quello il momento del suo riscatto, nonostante le ingiustificate proteste che accompagnarono il film.
Abbiamo visto che il nuovo film ha avuto buona accoglienza dalla critica ufficiale, eppure alcuni giornalisti hanno sottolineato come fatto negativo che questo film contenesse meno politica del romanzo dell’ex terrorista Massimo Carlotto da cui è stato tratto.
Non ho letto il romanzo, ma se si tratta di minore “ideologia” (quella ambigua, che vuol mostrare come siano più corrotti gli organi dello Stato rispetto agli idealisti rivoluzionari che sbagliavano solo il metodo) è un fatto molto positivo. Messaggi di quel tipo, fortemente discutibili, li abbiamo già visti in film come il celebre Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, che non ho amato anche per i toni caricaturali e gridati con cui erano stati trattati i personaggi.
Se invece per minore politicizzazione si è inteso che la pellicola non ha un significato sociale preciso, allora questi giornalisti non hanno visto il film con la giusta attenzione. È evidente che il messaggio di Arrivederci amore, ciao si può sintetizzare, banalizzandolo, con il motto “ruba poco e sarai punito, ruba molto e sarai premiato”. D’accordo, non è la scoperta dell’America. D’accordo, è un problema vecchio come il mondo ed è tristemente connaturato al genere umano. Ma qui si tratta di meccanismi legati agli organi dello Stato e alle famose regole per la ‘riabilitazione’ del condannato, rappresentate come utopistiche. Quindi certi contesti cambiano il significato e lo muovono decisamente in senso spiccatamente critico e sociale.
Qui il vicequestore impersonato da Placido è sì una carogna, ma l’ex rivoluzionario travolto dagli eventi negativi creatigli intorno dall’uomo di legge non viene tratteggiato come un eroe negativo o un disperato romantico che voleva cambiare il mondo con metodi sbagliati, ma come un individuo bieco e squallido, un freddo calcolatore né più né meno come il poliziotto corrotto, e poco cambia se uno è sempre stato dalla parte della legge in modo falso e l’altro è rimasto a suo modo coerente: il personaggio di Boni peggiora proprio dove il suo “sfruttatore” non è più in scena, cioè quando decide di uccidere sua moglie inutilmente ed in modo agghiacciante.
Il film sembra dunque voler dire tra le righe che la riabilitazione non può esistere, e così si assiste ad una progressiva e mostruosa discesa agli inferi di due personaggi aridi che trascinano con sé nel vortice tutto ciò che toccano.
D’altra parte a Soavi ha sempre interessato raccontare storie, non fare cinema ‘di parte’.
 
Il cinema italiano sta lentamente attraversando una fase di recupero dal periodo minimalista e ‘morettiano’ che l’aveva affossato soprattutto negli anni ’90, e lo sta facendo partendo proprio dal tema che aveva più trascurato in passato: il fosco periodo degli anni di piombo e le sue conseguenze (La meglio gioventù, Buongiorno notte, in parte Romanzo criminale…), forse con l’unica pecca di non raccontare a sufficienza la povertà culturale che c’era dietro quella sbornia. Ma i risultati sono ottimi, ed ora abbiamo una nuova generazione di attori e registi con cui identificarci come nei gloriosi tempi andati. Film quasi sperimentali come Cuore sacro e Arrivederci amore, ciao non assecondano più il pubblico ma lo indirizzano temerariamente ad aperture diverse, come una volta facevano opere allora ritenute indigeste dai primi spettatori come Roma città aperta e Ladri di biciclette.
Manca ancora una nuova produzione media che sia decente, ma speriamo che i tagli alla Cultura non pregiudichino troppo questa fase di ‘rinascimento’.
 
Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Massimo Carlotto, è stato coprodotto da Conchita Airoldi, ex attrice - col nome di Cristina Airoldi - del cinema di genere italiano (la ricordiamo soprattutto nelle pellicole gialle di Sergio Martino Lo strano vizio della signora Wardh e I corpi presentano tracce di Violenza carnale, rispettivamente del 1969 e del 1973) e ormai da molti anni produttrice.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel febbraio del 2006)

NON SI SEVIZIA UN PAPERINO di Lucio Fulci

Sono contento di vivere in quest’epoca per poter liberamente dire ciò che fino a un solo decennio fa non sarebbe stato possibile: Lucio Fulci fu un grandissimo regista.
Se la sua sperimentalità tecnica e il suo innovativo modo di scavare sottilmente nella parte oscura della psiche con accostamenti, colori e suoni arditi non fosse stata riconosciuta dagli USA, forse il mondo l’avrebbe dimenticato. Quentin Tarantino (per non parlare di Joe Dante), riconoscendolo come precursore di molto stile americano odierno, ha dato sicuramente una mano alla rivalutazione di questa controversa figura dotata di genio discontinuo ma lineare nella filosofia nichilista che lega tutti i suoi film, dai magnifici ai pessimi, dai thriller alle pellicole solo in apparenza comiche.
Gli altri “discepoli” (più o meno dichiarati) ad avere “studiato” Fulci sono De Palma, Rodriguez e Stone, assorbendo i suoi insegnamenti visivi nel rappresentare la violenza e i mezzi per farla penetrare nella psiche, non come qualcosa di asettico, ma presentandola per quello che è: una devastante e spiazzante forza che ti pone di colpo in una dimensione estranea e fuori dal tempo, irruendo inaspettatamente nei contesti e negli scenari più familiari, trasfigurandone la percezione e, ingannevolmente, addirittura la forma. Uno stordimento necessario per descrivere le sensazioni che si provano in quei momenti e che fino a prima di Fulci erano semplicemente definiti “da film” con la conseguenza di allentarne la forza fin dal principio, soprattutto in considerazione del balletto in cui il cinema aveva trasformato l’aggressività. Questo crudo realismo pone il regista fra i “veristi” (se possiamo scomodare una definizione “letteraria”) della sua categoria nonostante abbia spesso raccontato storie magiche o oniriche.
Il suo pessimismo però manca nei colleghi USA, che al suo stile coniugano ironia, denuncia sociale o comunque almeno un filo di speranza. A dire il vero un tale grado di pessimismo è raro trovarlo anche in Europa, superando in questo addirittura Mario Bava e Sergio Leone. Forse l’unico a reggere il paragone su questo piano è il mito Stanley Kubrick (d’accordo, americano, ma naturalizzato britannico), anche se le affinità tra i due si limitano a questo. Kubrick resta Kubrick...
Eppure il nome di Fulci viene tutt’ora associato a quello di Dario Argento solo per la comune frequentazione del giallo e dell’horror negli stessi anni, scordandoci che Argento - all’interno del suo genere - è fondamentalmente un ottimista.
 
UN FILM DI ESTREMI CONTRASTI:
Secondo dei tre suoi capolavori assoluti (dopo “Una sull’altra”, molto prima di “Sette note in nero”), “Non si sevizia un paperino” costituisce insieme a “Cosa avete fatto a Solange?” di Massimo Dallamano uno dei pochi gialli sociali del filone, e fu il film di cui il regista dichiarò di essere maggiormente fiero.
Continuamente sospeso tra sacro e profano, questo provocatorio e dissacrante film ha un impatto emotivo fortissimo sullo spettatore. Parla dei contrasti di un’Italia da troppo poco tempo entrata nel benessere industriale, ma con sacche nascoste di superstizione e di barbarie.
E’ presente anche il contrasto nord-sud inquadrabile nel personaggio di Barbara Bouchet, indicata come simbolo del peccato da abitanti di un paesino del sud che hanno ben poco di umano.
Azzeccato il binomio sole accecante-violenza con un risultato finale dirompente e realistico.
Nulla è edulcorato, e quel che viene fuori è un’artistica metafora su un momento di transizione della nostra storia in cui civiltà opposte, arcaicità (anche mentale) e sviluppo, convivevano gomito a gomito ignorandosi, come due strade parallele distanziate tra loro da solo un millimetro ma senza mai sfiorarsi e comunicare, fingendo di non vedere l’altra realtà per disprezzo o pura cecità.
Narrato con un raffinatissimo congegno giallo-poliziesco, il film è rimasto nei decenni insuperato e insuperabile.
 
LA TRAMA:
Inizialmente il film appare come un intrigante thriller di magia nera, per poi spostare l’asse nella direzione che sappiamo. In un paesino rurale della Lucania, vediamo una donna dissotterrare un piccolo scheletro e praticare dei riti voodoo con degli spilloni contro qualcuno che intuiamo - da alcune simboliche grida fuoricampo - essere dei bambini. Si tratta della “maciara” (Florinda Bolkan), una donna emarginata che si dedica alle arti magiche.
Poco dopo, dei bambini vengono ritrovati effettivamente uccisi. In paese (Accendura) sono da poco arrivati un giornalista (Tomas Milian, qui per fortuna tenuto a freno) e, da Milano, la figlia ricca di un abitante del luogo (Barbara Bouchet) che non si sa bene cosa ivi abbia intenzione di fare.
I sospetti dei carabinieri, dopo essere caduti sullo “scemo del villaggio” che aveva simulato un rapimento per soldi, si concentrano su quest’ultima. Finché la maciara, convinta di essere stata lei la causa delle morti, commette un gesto che insospettisce gli indagatori e il giornalista. Dopo l’arresto, confessa di essere stata lei a uccidere i bambini in quanto rei di aver profanato la sepoltura del suo figlioletto nato morto. Ma di averlo fatto con la magia nera!
Viene liberata e crudelmente linciata da alcuni abitanti convinti che siano state le sue “arti” a procurare le morti. Significative due frasi dell’unico agente che aveva capito cosa avrebbe comportato la liberazione della donna (senza essere capito, nel vero senso del termine, dai suoi incompetenti superiori): “Abbiamo fatto le autostrade e non siamo riusciti a debellare l’ignoranza”; e, rivolgendosi al giornalista: “No, non è il rimorso quello che legge nei volti di questi paesani. È solo il fatto che ora… hanno di nuovo paura!”
Come era prevedibile, nuove uccisioni di minori si verificano in paese.
Dopo astutissimi depistaggi per lo spettatore, si arriva alla conclusione finale: la testa di un bambolotto di Paperino viene trovata e si scopre che apparteneva alla sorellina sordomuta del parroco: uno dei bambini era stato strangolato, e il giornalista capisce che questa bambina deve avere visto la scena e averla imitata sul bambolotto. Si sospetta della madre del religioso (Irene Papas), ma quando questa si rifugia con la bambina su un promontorio braccata dal figlio scopriamo la verità.
Il killer è il prete (Marc Porel), ed agisce convinto che uccidendo degli esseri umani nell’“età dell’innocenza”,  avrebbe assicurato loro il paradiso sottraendoli alle spire del peccato dell’età adulta. Grazie all’intervento del giornalista e della ragazza, dopo una violenta colluttazione il prete cade dalla rupe, e vediamo il suo viso sfracellarsi contro le rocce, mentre alcune immagini della storia e i suoi pensieri fuoricampo riepilogano la follia ‘a fin di bene’ di un uomo che sceglie di dannarsi pur di salvare quelle che lui reputa anime pure e incontaminate.
Qui si ha forse l’unico punto registicamente poco felice, con un eccessivo indulgere nel particolare macabro della faccia del prete che letteralmente si rompe sulle rocce, cadendo irrealisticamente in rettilineo e con degli effetti non degni del confronto con gli altri presenti nel film.
La pellicola si chiude con una panoramica dall’alto e un canto in dialetto lucano proveniente da un luogo sconosciuto del paese.
 
RIVOLUZIONARIETÀ E INSENSATEZZA DELLA VIOLENZA:
Il tocco rivoluzionario di Fulci lo vediamo anche nel descrivere, in una scena del film, l’incredulità del prete nello scoprire che alcuni bambini erano dei guardoni, non sospettando che in realtà questi bambini profanano le tombe, fumano, torturano le lucertole e guardano le prostitute in azione con puntuale regolarità. Questi adulti in miniatura approfittano della falsa idea che i grandi hanno della loro età per vivere un loro mondo compiaciuto fatto di piccoli peccati, che nella mentalità del luogo verrebbero visti come insospettabili aberrazioni e proprio per questo esercitano su di loro un’attrazione irresistibile.
Il mito dei bambini come angeli puri e innocenti è in frantumi, l’intelligenza degli adulti pure.
Significativa, in una delle prime scene del film, l’espressione di un ragazzino che viene avvisato dell’arrivo delle prostitute mentre si trova in chiesa a pregare; qui traspare, dalla sua eccitazione e dal volto sudato, che in quel luogo sacro in realtà lui non stava aspettando altro che quel segnale.
 
Allargando il discorso, si possono citare numerosi altri esempi di morbosità gratuite di cui è pervaso il film. Cosa sorprendente e coraggiosa, in un’epoca in cui nei film ad ogni gesto insano corrispondeva ancora una precisa ragione di natura economica o una giustificazione psicanalitica. In una scena ultracensurata, ad esempio, la Bouchet costringe un imbarazzatissimo bambino a guardarla nuda solo per il gusto perverso di farlo, giocando per puro passatempo con la sessualità ancora latente del minore, esattamente per lo stesso motivo per cui quest’ultimo tirava le pietre con la fionda alle lucertole: piccoli e adulti uniti dal gusto per il puro sfizio insensato, a cui sfugge ogni logica, cosa impensabile per qualsiasi thriller di matrice americana.
 
Ma la scena della Bouchet nuda non fu l’unica ad essere censurata: prendiamo la scena stilisticamente più complessa del film, quella del linciaggio della maciara, tagliata dalle tv per la sua ferocia…
Campo lungo dall’alto, autoradio a tutto volume per nascondere le grida, e si vedono gli energumeni entrare nel cancello della maciara. La telecamera torna di colpo ad altezza umana. Inizia il massacro, e si ha forse per la prima volta il binomio rock’n roll-brutalità, futura delizia tarantiniana. Volendo, anche qui si potrebbe leggere la stridente convivenza di modernità e preistoricità.
Si nota quanto gusto malato e beffardo provino i carnefici nello sferrare pugni in faccia da dietro le proprie spalle per sorprendere la vittima, schiacciarle le dita nel cancello e colpirla con mazze ferrate e grosse catene. Quasi tutta la scena è ripresa in soggettiva mossa attraverso gli occhi della Bolkan, con un montaggio sorprendente ed effetti da manuale.
Qui si ha qualcosa che va oltre la rabbia e la vendetta: è lo sfogo di un gruppo di sadici che hanno trovato il modo di divertirsi senza avere scrupoli di coscienza, in quanto mandati in missione da tutto il paese.
Mentre lo shock è ancora in atto, la musica dell’autoradio cambia e si fa melodica, con un contrasto atto a impedire che lo scossone dato allo spettatore si esaurisca: la canzone (provocatoriamente d’amore!) è “Quei giorni insieme a te” della ex ‘cantante della mala’ Ornella Vanoni, nel ’72 già passata da tempo a un repertorio raffinato e sentimentale. Il brano, molto malinconico, fu scritto da Riz Ortolani appositamente per la pellicola.
Nuovo stacco dall’alto ed abbiamo il momento più lirico del film: mentre ancora prosegue la canzone, vediamo gli assassini allontanarsi credendo morta la donna, e per la prima volta proviamo pietà per questa figura apparsa meschina per tutto il film, in quanto ora sappiamo definitivamente che i mostri sono gli altri, i ‘razionali’ vendicatori del villaggio.
La maciara si trascina, nei suoi ultimi istanti si arrampica insanguinata sulle rocce assolate per affacciarsi alla modernissima autostrada e chiedere aiuto a gesti agli automobilisti che vanno al mare. Ma questi, intere famiglie di persone perbene, pur vedendola continuano a ridere e a scherzare tra di loro come nulla fosse, forse per semplice indifferenza, forse per non arrivare troppo tardi alla meta vacanziera.
Al ralenty vediamo, nella soggettiva falsata della morente, anche un bambino biondo con la faccia d’angelo e una grossa palla tra le mani, che nel vederla resta indifferente come di fronte ad un essere inferiore. A questo ralenty corrispondono perfettamente le ultime, struggenti note del brano della Vanoni.
Questa scena, pesantemente simbolica, è quella che più resta impressa di tutto il film.
Il capovolgimento dei ruoli ora si allarga diventando una critica senza speranze alla società benestante. Non si salva più nessuno. La canzone si spegne compassionevolmente insieme al personaggio della Bolkan.
 
Si torna al resto del film con una strana sensazione di spaesamento, come se si ritrovassero gli altri personaggi non dopo pochi minuti ma dopo un lunghissimo viaggio scioccante e irreale in cui sembrava di vivere una storia parallela talmente forte da essere decontestualizzata e da farti scordare come si era giunti fin lì.
Da qui in poi il film si snoda come uno dei più perfetti congegni del giallo italiano. La perfezione e la veridicità della trama per Fulci era indispensabile, soprattutto quando era affiancato dal geniale coautore e sceneggiatore Roberto Gianviti, mai considerato dall’intellighenzia critica per quello che valeva.
Fulci, da parte sua, su questo piano era particolarmente intransigente: quando ha voluto fare trame libere dalla logica ha adottato il genere horror. O ineccepibilità o totale anarchia visionaria, senza vie di mezzo. Lo splatter l’ha reso celebre nel mondo, ma in tale genere ha conquistato un tipo di pubblico più voyeur che raffinato, il che lo pone una spanna al di sotto del collega Argento, che nell’horror ha adottato uno stile più sobrio ed elegante. Fulci è il re del giallo (italiano e non solo).
Un esempio di grande inventiva - oltre che di indovinato montaggio - si ha per esempio nella scena in cui si mostra la Bouchet metter giù il telefono con aria sospetta da un Autogrill dopo che una delle future vittime era stata invitata da qualcuno (via telefono, naturalmente) a raggiungerlo/a fuori di casa: dopo l’uccisione, noi vedremo la donna addirittura negare di essere uscita la sera! Obiettivamente non è facile per lo spettatore immaginare chi altri potesse avere chiamato il ragazzino se non lei, che palesemente nascondeva qualcosa (più avanti scopriremo che si trattava di una dipendenza da droghe). Vedere per credere.
Così come è difficile non fare ricadere nuovamente i sospetti sulla donna del nord dopo che un altro ragazzo, da cui lei si era appena fatta riparare una gomma della macchina, viene trovato morto. Solo nel finale ricolleghiamo che il sacerdote si era appena lanciato alla ricerca disperata del piccolo per salvarlo dal pericolo del misterioso killer…
 
Il decadimento per motivi di salute e di budget della sua (pur filosoficamente coerente) opera, ma anche la sua frequentazione più o meno forzata dello splatter, hanno relegato il regista romano fra gli autori trash del nostro secolo o comunque di serie B.
Ma a differenza di altri suoi rispettabili colleghi come Lenzi e Margheriti, a cui il suo nome viene associato, Fulci non era un regista per commissione o perlomeno personalizzava le trame che gli si proponevano riscrivendole da zero.
Non hanno marciato a suo favore nemmeno altri elementi, come i titoli che i produttori gli imponevano per i suoi film - su questo il regista non aveva nessuna voce in capitolo - quasi sempre ridicoli come quello della pellicola di cui vi ho parlato fin ora. I titoli con i nomi di animali andavano di moda sulla scia dei successi di Argento, che tra l’altro Lucio non sopportava.
Poi, le uscite dei suoi film erano quasi sempre fissate intorno a ferragosto, il che significava la morte commerciale dei film!
Non ultimi, hanno giocato contro di lui anche il suo carattere terribile e gli attacchi alla Chiesa (cominciati col suo “Beatrice Cenci”) in un’epoca in cui ancora non si poteva essere anticlericali. Non a caso la terza scena tagliata da “Non si sevizia un paperino” è proprio quella del prete assassino che si sfigura cadendo dal dirupo.
 
In definitiva sull’artigiano Fulci si può dire che resta il primo regista (e tuttora uno dei pochi) ad aver coniugato le immagini forti con aspetti puramente subliminali e psicologici, mentre solitamente si è sempre scelto (anche oggi) tra la sottigliezza del suggerimento o il brutale colpo allo stomaco.
Sicuramente non sapeva di stare delineando una sua riconoscibile poetica attraverso i suoi pur diversissimi film. Inconsapevole come tutti gli artisti, oltre che un poeta maledetto era a suo modo un disperato romantico.
So che non è così, ma mi piace pensare al decadimento della sua opera come ad una parabola dell’inevitabile e sconsolato decadimento della vita stessa.
In più ci si potrebbe porre una domanda: cosa avrebbe potuto fare Lucio coi mezzi di oggi e la creatività degli anni ‘70?
 
CURIOSITÀ:
Pur senza plagi, l’ambientazione di “Non si sevizia un paperino” - e anche la scelta di location pugliesi per fittizie ambientazioni lucane - è stata ripresa da Salvatores per “Io non ho paura”, e, prima di questo, qualcuno avrà notato pesanti affinità stilistiche con il magnifico “La corsa dell’innocente” di Carlo Carlei, altro silenzioso discepolo di Fulci.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel 2006)

BOOGEYMAN - UOMO NERO di Stephen T. Kay

C’è stato un lungo periodo in cui moltissime persone fra cui il sottoscritto hanno bollato l’horror come un genere banale, non proprio intelligente e fondamentalmente per degenerati cultori del macabro e del cattivo gusto. Erano gli effetti dei lontani anni ’80, in cui il puro splatter era diventato sinonimo del genere. C’è voluto del tempo perché io mi ricredessi , e ci sono voluti film come  “Ringu” e qualche vecchia pellicola italiana di pregio come “Suspiria” e “L’orribile segreto del dottor Hichcock” per farmi capire che c’era anche dell’altro, come una forte componente psicanalitica e una spiccata visionarietà che si avvicina all’arte astratta.
È un genere che potrebbe/dovrebbe essere distinto in 2 tronconi, uno riguardante il puro ‘splatterume’, stile “Dal tramonto all’alba”, e l’altro che si rifà al gotico, all’onirico e alle paure nascoste, come il filone più moderno che ha finalmente ritrovato lo stile precedente al sopracitato decennio degli effettacci.
Il film “Boogeyman” è perfettamente inserito nella seconda categoria di cui sopra: niente pomodoro e niente mutilazioni, tanto da potersi definire semplicemente un pregevole fantathriller sofisticato stile “Sette note in nero”, “The others” o “Il sesto senso”. Con l’ormai immancabile componente del trauma infantile, il cui tema venne sviluppato per le prime volte proprio in Italia coi film di Argento, Bava e Martino (ma gli americani si guardano bene dall’ammetterlo). Il tema della crudeltà infantile, invece, essendo “politically incorrect”, rimarrà sempre un patrimonio del cinema europeo, e ciò non è certo un male.
Molto significativa è la scelta che si è avuta dagli anni ’90 in poi, di abbandonare parzialmente le nefande stranezze su zombie e mostri nati da esperimenti scientifici in favore di leggende classiche e superstizioni antiche, che affiorano da scrigni riaperti dopo secoli. La paura del diavolo, a causa della nostra cultura cristiana, è stata molto rappresentata in passato in quanto argomento quasi-serio, e così oggi si prediligono temi che per il fatto di averci fatto regolarmente sorridere da adulti non sono mai stati trattati seriamente, come la strega delle favole neozelandesi sui dentini caduti ai bimbi (“Al calare delle tenebre”, nelle sale due estati fa), la diceria nipponica che il mare ospiti le anime dei morti che ha dato il la alla saga di “Ringu” (dice Hideo Nakata che tale leggenda sia nata dalle continue alluvioni giapponesi) o appunto il famoso Boogeyman-uomo nero, ovvero nientemeno che il Babau di una volta!
Le tradizioni che tornano per dirci sostanzialmente due cose: 1: noi esistiamo da secoli e i vostri zombie no, e 2: da piccoli credevate in noi perchè eravate più puri, ergo noi esistiamo.
Ciò che è sepolto nella memoria e nell’inconscio dei personaggi spesso a causa dell’educazione ricevuta è un terreno che nobilita il genere e lo riporta paradossalmente ad un terreno più umano che fantastico, svelando nel nuovo horror/fantathriller una profondità che generi più ‘per bene’ come la fantascienza e l’azione non hanno mai avuto. L’unico tratto in comune rimasto nel genere dalla sua nascita è la rappresentazione, più meno analitica, della paura. 

Ma veniamo al film in sé. La vicenda prende il volo da quando la psichiatra infantile che aveva avuto in cura Tim suggerisce all’ex paziente ormai adulto di prendere il toro per le corna e tornare nella casa che tanto lo terrorizza per la tragica morte del padre. Ma la storia intriga fin dall’inizio grazie soprattutto alla credibilità dei dialoghi.
Sam Raimi ha voluto produrre una storia assolutamente classica e lontana dai suoi gusti di un tempo, dando credito a un regista e ad attori sconosciuti ai più, ma tutti molto credibili nei loro ruoli, come capita spesso in questo tipo di produzioni per metà neozelandesi come per il già citato “Al calare delle tenebre”. Niente di nuovo, quindi, ma tutto fatto con ingredienti onesti e di prima scelta, il che fa decisamente la differenza.
Così come fa la differenza il non volere mostrare agli altri personaggi del film – e in parte anche agli spettatori – quanto sia vero l’incubo che vive Timmy (Barry Watson), rappresentando così al meglio il suo isolamento per oltre metà film, al punto che anche a noi, di fronte allo schermo, pur a conoscenza della soprannaturalità della storia, viene da sospettare che possano avere ragione gli increduli personaggi a cui lui trova il coraggio di svelare il mistero. L’identificazione non è solo con Timmy, ma anche con Jessica, la sua ragazza, e soprattutto con Kate, l’amica di infanzia che si ritroverà con lui a fronteggiare il mostruoso nemico.
C’è anche l’immancabile figura ‘spiritica’ di una bambina che gli offre la soluzione che però lui sarà chiamato a dovere interpretare, disseminata fra le parole di un discorso apparentemente casuale. Le dice lui, dubitando a un certo punto di se stesso:“non è vero nulla; mio padre diceva: ‘devi contare fino a 5’”; e lei, con l’espressione di un apparente sfottò: “… e che succede se arrivi a 6?”.
La soluzione finale sta tutta qui, nel capire il significato nascosto di questa battuta fintamente criptica e inutile, ma che in realtà nasconde una verità banale al punto che lo spettatore, ingannato,  stenta ad afferrarla subito così come stenta il protagonista. La sconfitta di un mostro ‘nato’ nell’infanzia si trova nelle idee semplici a cui una vittima ormai adulta non è più abituata.
Stilisticamente il film è molto ricercato: gli effetti speciali, che non vogliono strabiliare ma solo essere funzionali alla storia, sono concentrati tutti nel prologo e nel finale contenente molte scene da film ‘sobbalzone’. Per il resto, ci sono alcune sequenze di flashback ‘rivelatore’ nei punti più imprevedibili e, nota alquanto originale, visivamente amalgamati al resto del film senza il consueto ausilio di immagini sfocate o di partiture differenti in sottofondo.
L’apporto delle musiche è di tipo decisamente hitchcockiano (sembra di sentire Bernard Herrmann), cosa oggi più in uso nel fantasy - vedi “Le verità nascoste” -  che nel giallo-thriller, genere tipico del maestro inglese.
In definitiva, chiamiamo pure Boogeyman film d’evasione… Ma non definiamolo disimpegnato nei due sensi del termine: magari tutti i film d’evasione fossero fatti con la stessa cura. 

Giovanni Modica (recensione fatta nel luglio del 2005)

ANGEL-A di Luc Besson

Un film fotografico. No, non nel senso dello stile di Antonioni, ma nel senso di immagine pubblicitaria, patinata, con tanto di modella-Vogue di quelle che non siamo abituati a sentir parlare. Non si può dire neanche film estetico, ma prettamente visivo. A differenza di Antonioni o Wenders, qui l’aspetto fotografico del film non è da considerarsi un veicolo per comunicare stati d’animo o immobilità del tempo, ma ha il puro e semplice - ma non meno encomiabile - scopo di togliere il fiato allo spettatore.
Lo scorrere delle immagini di “Angel-A” di Luc Besson è come sfogliare uno splendido libro sugli scorci più suggestivi di Parigi immortalati da un vero Autore della fotografia. Il ricercato bianco e nero, poi, arriva a rendere affascinante anche ogni singolo fotogramma del film; qualsiasi fermoimmagine, anche di quelli con i personaggi esteticamente meno gradevoli come il protagonista algerino-americano André (Jamel Debbouze) risulterebbe piacevole.  
La storia c’è, anche se la sminuisce il voluto elemento ‘deja-vù’ che la caratterizza. La critica ufficiale ha parlato di un “Il cielo sopra Berlino” meno problematico, oppure di un “La vita è meravigliosa” in piccolo, e c’è sicuramente del vero.
 
Le trovate ci sono, anche se - come detto - si tratta soprattutto di trovate d’impatto visivo: le ali della statua senza testa di un angelo davanti al profilo della figura di Angel-A.
E poco prima, la non originale ma splendida ripresa di lei mollemente seduta, con dei movimenti lenti e a gambe larghe, sull’orlo della finestra mentre osserva una scena che si svolge tra André e un uomo di malaffare all’interno di un ufficio. 
Ma anche nella trama ci sono momenti originali: ad esempio l’idea dell’angelo di farsi dire da lui ‘ti amo’ davanti allo specchio scomparendo a un certo punto dal suo fianco mettendolo in condizione di dirlo a se stesso!
Così come il far credere ad André e a tutti noi che Angel-A stia avendo rapporti mercenari per salvare le finanze di lui nel bagno di una discoteca mentre in realtà i rumori dei sussulti sono generati dalle botte che lei somministra ai malcapitati (poveretti, in fondo!…).
Fino a che non viene svelato il trucco di questa scena, il film più che di Wenders o di Capra mi era sembrato una copia di “Michael” di Nora Ephron con un Travolta in chiave femminile nelle vesti di Rie Rasmussen.
È evidente che la commedia “Michael” del 1996 ha pesantemente influenzato “Angel-A”, e che in realtà - anche se forse nessuno lo ha detto - il suddetto film americano è l’unico veramente simile a questo ultimo di Besson, con la figura di questo angelo quasi pagano che scende sulla Terra per aiutare un disgraziato e trasgredisce al suo ordine deontologico pur di farlo fino in fondo.
 
Si può quindi dire con tranquillità che si tratta di un gran misto di elementi conosciuti, ma non è una grossa colpa: Besson ha detto che ha voluto fare un film leggero, un’opera gradevole in una fase estemporanea nella eterna scrittura del suo prossimo film pare da 70 milioni di dollari. Le pretese non erano eccessive, quindi, fin dal principio. Saggiamente, il regista non ha mai negato che il vero pretesto del film fossero le inquadrature - da lui molto ricercate anche nei film del passato -  e con loro l’omaggio alla Parigi cosmopolita di oggi con due personaggi che di francese non hanno nulla (una palesemente scandinava e uno palesemente nordafricano) e valorizzati dallo sconosciuto direttore della fotografia Thierry Arbogast.
 
La tipicità della storia è dunque compensata da altri elementi. L’unico vero difetto è che Besson costringe come sempre gli attori a gesticolare e a istrioneggiare troppo, mentre nei dialoghi dovrebbe limare anche il banale lato umoristico che invece da sempre alimenta nei suoi film. Non sarà importante, ma davvero non capisco per quale motivo questo regista insista nell’inserire nei suoi film una delle battute più deboli mai sentite al cinema. Alludo allo scambio verbale: ““Non ripetere più okay, okay?” “Okay””. L’avevamo già sentita in un dialogo tra Jean Réno e Nathalie Portman nel film Lèon del 1994 ed aveva già un sapore vecchio; ora la sentiamo riciclata in Angel-A, si vede che il regista ne è davvero orgoglioso. D’altronde l’insistente aspetto ironico dei suoi film è rimasto fermo al gusto del cinema USA anni ’80, quando l’autore aspirava spasmodicamente al titolo di “regista più americano d’Europa” come fosse davvero un fiore all’occhiello.
La sua affannosa ricerca del consenso popolare e del pubblico USA lo ha sempre spinto a forzare la mano rendendo stereotipati i suoi personaggi. Addirittura, qui, per omaggiare gli USA, arriva a rendere ‘americano’ persino un personaggio algerino, munendolo di carta verde e di un fantomatico attico a Manhattan!
Comunque rispetto al passato i suoi dialoghi e le psicologie da lui tratteggiate hanno subito un miglioramento, e la cosa emerge anche in considerazione del fatto che qui mancava totalmente il vero punto di forza del suo cinema, ovvero l’azione. Besson ha voluto cimentarsi, oltre che con le immagini sofisticate, anche con i “contenuti”. E, considerandosi di lui, non ci si può certo lamentare.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel marzo del 2006)

LA GUERRA DEI MONDI di Steven Spielberg

La presente recensione potrebbe valere il doppio o nulla, a seconda di come si vuole giudicare il commento di un non appassionato del genere fantascientifico (salvo pochissime eccezioni) su La guerra dei mondi.
Spielberg non è mai stato un regista “da prendere o lasciare” in toto, perché i suoi film sono sempre stati meravigliosamente imperfetti, ed il suo tocco non ha mai mancato di nobilitare trame non originalissime o qualche situazione traballante.
Questa pellicola ha un motivo di interesse in più rispetto al fortunato Minority report, ed è quello del confronto con il cinema di ieri. Qui non si tratta del solito remake a la page: il precedente La guerra dei mondi ha ormai più di 40 anni sulle spalle e risale quindi agli albori della fantascienza americana, quando ancora era considerata un genere da drive in per ragazzi pronti a distrarsi dal film in favore di conquiste più terrene di quelle narrate sullo schermo.
Il film del 1953 - tratto da un romanzo di Wells - aveva degli effetti speciali oggi ovviamente risibili che rischierebbero, agli occhi del più giovane che si accosta alla sua visione, di non essere presi sul serio nonostante all’epoca fossero un’operazione all’avanguardia.
Si trattava quindi di attualizzare e di rendere atemporale una trama degna di essere nobilitata dai mezzi odierni. Certo, lo script originale, per quanto modernizzato, tradisce qualche ingenuità e nel finale si nota tutta la distanza tra i gusti di allora e quelli di oggi, in cui siamo abituati ad avere il culmine del film – di solito basato su strenui combattimenti – concentrato in un gran finale in favore dell’eroe protagonista e non di un’idea pseudoscientifica che sostanzialmente vede le cose risolversi da sole.
Qui non si vuole dare giudizi sulla concezione della sci-fi di ieri e di oggi né sull’evoluzione/involuzione dei gusti, ma fare notare un interessante confronto tra le epoche.
I veri appassionati del genere sono quindi invitati a vedere anche l’originale, non per mettere le due opere sulla bilancia come si è soliti fare, ma per motivi puramente storici.
Gli amici in sala, non essendo a conoscienza della pellicola originale, sono rimasti perplessi su alcuni momenti (specie nel finale) del film. Il metro giusto del giudizio rischia quindi di sfuggire ai più, a meno che non li si informi su dove l’opera affondi le sue radici.
Poco da dire sugli attori, chiamati per dare un contributo piuttosto convenzionale e di immagine in un’opera che non vuole avere il suo punto di forza nell’introspezione.
 
Spielberg da qualche tempo ha adottato anche lui l’efficacie stile nervoso e in perenne movimento tipico degli ultimi anni, in cui la macchina da presa, pur non raggiungendo gli estremi febbricitanti di Oliver Stone, non si limita più ad agitarsi solo nelle sequenze d’azione, ma rende palpabili anche i moti interiori dei personaggi con simbolici escamotage in apparenza fini a se stessi (come le fulminee carrellate dalla spalla alla mano di Ray Ferrier-Tom Cruise mentre gioca a baseball litigando col figlio).   
Ovviamente, anche non alla luce del confronto col 1953, gli effetti speciali di un film di Spielberg sono impeccabili e qui non si fa eccezione, ma vale la pena comunque di citarne i migliori esempi: lo spaccamento della crosta terrestre e l’allargamento dei crateri generati sono al vertice del realismo, e vengono purtroppo parzialmente rovinati da alcune scelte di sceneggiatura che ne attenuano la veridicità, come ad esempio la reazione della folla talmente curiosa da non riuscire a scostarsi dal terreno in continuo disfacimento se non di un metro, indietreggiando solo di un passo per volta inscenando così una ‘danza’ con la terra molto suggestiva visivamente, ma poco attendibile sul piano della credibilità.
Così come fuori luogo l’eccessivamente lunga scena dell’intrusione dell’‘occhio meccanico’ alieno all’interno del rifugio ci porta a domandarci per quale motivo extraterrestri che avevano polverizzato interi edifici avessero bisogno di perlustrare l’ambiente per scovare eventuali presenze umane da sopprimere.
La scena, comunque, resta interessante per altri aspetti: Tim Robbins (poco più che un cammeo), dopo avere ospitato nel suddetto rifugio Ferrier & figli, comincia ad entrare nel panico e a sragionare al punto che il protagonista decide di eliminarlo per poi adottare la stessa drastica soluzione proposta dall’ospitante: il colpo d’ascia!… Il personaggio di Cruise non dimostra alcun rimorso per questo eccesso, che viene mostrato come qualcosa di falsamente necessario.
A mio giudizio poteva diventare la scena maggiormente inquietante del film, in quanto avrebbe potuto mostrare più minuziosamente quanto il lato oscuro delle persone possa annebbiare la ragione di vittime e carnefici in un contesto di emergenza. Può darsi che Spielberg abbia avuto paura di appesantire la storia con “intellettualismi” forse più consoni al filone ‘serio’ del suo cinema.
 
Ma veniamo ai tocchi da maestro.
Notevole il modo turbinoso con cui è stata girata la scena della fuga in macchina verso la moglie in un’altra città ed in particolare il frammento che vede l’auto dei tre protagonisti violentemente assediata dalla folla ansiosa di scappare con loro (la maggior parte delle auto era stato messo fuori uso).
Meravigliosa ed inaspettata la scena del fiume di cadaveri, con la bambina - arrivata lì per motivi fisiologici - che rimane ammutolita di fronte al macabro spettacolo trasportato dalla corrente. Prima uno, poi tre, e poi ancora e ancora, in un silenzioso scenario post-apocalittico. Un tocco tragicamente lirico che il maestro americano avrebbe potuto rendere anche più lungo, non fosse sempre costretto a rispettare i termini di velocità del cinema d’azione.
A mio avviso, quindi, le parti geniali del film non sono quelle puramente fantascientifiche.
L’originalità della sequenza del fiume e lo spiazzante finale privo di ‘fuochi d’artificio’ riscattano questa piacevole opera anche da alcune stucchevolezze spielberghiane come i bambini sempre coraggiosi e intelligentissimi di fronte ai quali gli adulti sfigurano clamorosamente o la miracolosa ricomparsa del figlio maggiore sulla quale chiunque avrebbe scommesso.
Un pizzico di ironia e di attualità nel momento in cui i figli sospettano che i disastri siano stati compiuti dai terroristi  offre allo spettatore una battuta da ricordare.
Più che interessante, poi, il parallelismo (e la metafora) che abbiamo a metà film tra la tragedia del Titanic e l’imminente fine del mondo per mano aliena, con la folla terrorizzata che fa quasi a pugni per potersi imbarcare mentre una voce li rassicura gridando: “c’è posto per tutti”, fino al crollo della situazione sotto il collasso generale.
Il sottofondo di musica rilassante diffuso dagli altoparlanti per tranquillizzare la massa richiama alla mente il celeberrimo “Walzer delle candele”, che per essere stato suonato con le stesse finalità sulla nave più famosa del mondo si era guadagnato l’infamante etichetta di menagramo.
 
Un film molto spielberghiano, dunque, con un impianto sostanzialmente classico disseminato qua e là di elementi innovativi soprattutto nel plot secondario, impedibile per gli amanti dello Spielberg disimpegnato e per chi ha amato la sci-fi dei tempi andati.
Ma mi raccomando: vedere sempre anche gli originali!
 
Basato sull’omonimo romanzo di H. G. Welles e remake del film “The War of the Worlds” di Byron Haskin (1953)
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel giugno del 2005)