Sono contento di vivere in
quest’epoca per poter liberamente dire ciò che fino a un solo decennio fa non
sarebbe stato possibile: Lucio Fulci fu un grandissimo regista.
Se la sua sperimentalità tecnica
e il suo innovativo modo di scavare sottilmente nella parte oscura della psiche
con accostamenti, colori e suoni arditi non fosse stata riconosciuta dagli USA,
forse il mondo l’avrebbe dimenticato. Quentin Tarantino (per non parlare di Joe
Dante), riconoscendolo come precursore di molto stile americano odierno, ha
dato sicuramente una mano alla rivalutazione di questa controversa figura
dotata di genio discontinuo ma lineare nella filosofia nichilista che lega
tutti i suoi film, dai magnifici ai pessimi, dai thriller alle pellicole solo
in apparenza comiche.
Gli altri “discepoli” (più o meno
dichiarati) ad avere “studiato” Fulci sono De Palma, Rodriguez e Stone,
assorbendo i suoi insegnamenti visivi nel rappresentare la violenza e i mezzi
per farla penetrare nella psiche, non come qualcosa di asettico, ma
presentandola per quello che è: una devastante e spiazzante forza che ti pone
di colpo in una dimensione estranea e fuori dal tempo, irruendo
inaspettatamente nei contesti e negli scenari più familiari, trasfigurandone la
percezione e, ingannevolmente, addirittura la forma. Uno stordimento necessario
per descrivere le sensazioni che si provano in quei momenti e che fino a prima
di Fulci erano semplicemente definiti “da film” con la conseguenza di
allentarne la forza fin dal principio, soprattutto in considerazione del
balletto in cui il cinema aveva trasformato l’aggressività. Questo crudo
realismo pone il regista fra i “veristi” (se possiamo scomodare una definizione
“letteraria”) della sua categoria nonostante abbia spesso raccontato storie
magiche o oniriche.
Il suo pessimismo però manca nei
colleghi USA, che al suo stile coniugano ironia, denuncia sociale o comunque
almeno un filo di speranza. A dire il vero un tale grado di pessimismo è raro
trovarlo anche in Europa, superando in questo addirittura Mario Bava e Sergio
Leone. Forse l’unico a reggere il paragone su questo piano è il mito Stanley
Kubrick (d’accordo, americano, ma naturalizzato britannico), anche se le affinità
tra i due si limitano a questo. Kubrick
resta Kubrick...
Eppure il nome di Fulci viene
tutt’ora associato a quello di Dario Argento solo per la comune frequentazione
del giallo e dell’horror negli stessi anni, scordandoci che Argento -
all’interno del suo genere - è fondamentalmente un ottimista.
UN FILM DI ESTREMI CONTRASTI:
Secondo dei tre suoi capolavori
assoluti (dopo “Una sull’altra”, molto prima di “Sette note in nero”),
“Non si sevizia un paperino” costituisce insieme a “Cosa avete fatto
a Solange?” di Massimo Dallamano uno dei pochi gialli sociali del filone, e
fu il film di cui il regista dichiarò di essere maggiormente fiero.
Continuamente sospeso tra sacro e
profano, questo provocatorio e dissacrante film ha un impatto emotivo
fortissimo sullo spettatore. Parla dei contrasti di un’Italia da troppo poco
tempo entrata nel benessere industriale, ma con sacche nascoste di
superstizione e di barbarie.
E’ presente anche il contrasto
nord-sud inquadrabile nel personaggio di Barbara Bouchet, indicata come simbolo
del peccato da abitanti di un paesino del sud che hanno ben poco di umano.
Azzeccato il binomio sole
accecante-violenza con un risultato finale dirompente e realistico.
Nulla è edulcorato, e quel che
viene fuori è un’artistica metafora su un momento di transizione della nostra
storia in cui civiltà opposte, arcaicità (anche mentale) e sviluppo,
convivevano gomito a gomito ignorandosi, come due strade parallele distanziate
tra loro da solo un millimetro ma senza mai sfiorarsi e comunicare, fingendo di
non vedere l’altra realtà per disprezzo o pura cecità.
Narrato con un raffinatissimo
congegno giallo-poliziesco, il film è rimasto nei decenni insuperato e
insuperabile.
LA TRAMA:
Inizialmente il film appare come
un intrigante thriller di magia nera, per poi spostare l’asse nella direzione
che sappiamo. In un paesino rurale della Lucania, vediamo una donna
dissotterrare un piccolo scheletro e praticare dei riti voodoo con degli
spilloni contro qualcuno che intuiamo - da alcune simboliche grida fuoricampo -
essere dei bambini. Si tratta della “maciara” (Florinda Bolkan), una donna
emarginata che si dedica alle arti magiche.
Poco dopo, dei bambini vengono
ritrovati effettivamente uccisi. In paese (Accendura) sono da poco arrivati un
giornalista (Tomas Milian, qui per fortuna tenuto a freno) e, da Milano, la
figlia ricca di un abitante del luogo (Barbara Bouchet) che non si sa bene cosa
ivi abbia intenzione di fare.
I sospetti dei carabinieri, dopo
essere caduti sullo “scemo del villaggio” che aveva simulato un rapimento per
soldi, si concentrano su quest’ultima. Finché la maciara, convinta di essere
stata lei la causa delle morti, commette un gesto che insospettisce gli
indagatori e il giornalista. Dopo l’arresto, confessa di essere stata lei a uccidere
i bambini in quanto rei di aver profanato la sepoltura del suo figlioletto nato
morto. Ma di averlo fatto con la magia nera!
Viene liberata e crudelmente
linciata da alcuni abitanti convinti che siano state le sue “arti” a procurare
le morti. Significative due frasi dell’unico agente che aveva capito cosa
avrebbe comportato la liberazione della donna (senza essere capito, nel vero
senso del termine, dai suoi incompetenti superiori): “Abbiamo fatto le
autostrade e non siamo riusciti a debellare l’ignoranza”; e, rivolgendosi al
giornalista: “No, non è il rimorso quello che legge nei volti di questi
paesani. È solo il fatto che ora… hanno di nuovo paura!”
Come era prevedibile, nuove
uccisioni di minori si verificano in paese.
Dopo astutissimi depistaggi per
lo spettatore, si arriva alla conclusione finale: la testa di un bambolotto di
Paperino viene trovata e si scopre che apparteneva alla sorellina sordomuta del
parroco: uno dei bambini era stato strangolato, e il giornalista capisce che
questa bambina deve avere visto la scena e averla imitata sul bambolotto. Si
sospetta della madre del religioso (Irene Papas), ma quando questa si rifugia
con la bambina su un promontorio braccata dal figlio scopriamo la verità.
Il killer è il prete (Marc
Porel), ed agisce convinto che uccidendo degli esseri umani nell’“età
dell’innocenza”, avrebbe assicurato loro
il paradiso sottraendoli alle spire del peccato dell’età adulta. Grazie
all’intervento del giornalista e della ragazza, dopo una violenta colluttazione
il prete cade dalla rupe, e vediamo il suo viso sfracellarsi contro le rocce,
mentre alcune immagini della storia e i suoi pensieri fuoricampo riepilogano la
follia ‘a fin di bene’ di un uomo che sceglie di dannarsi pur di salvare quelle
che lui reputa anime pure e incontaminate.
Qui si ha forse l’unico punto registicamente poco felice,
con un eccessivo indulgere nel particolare macabro della faccia del prete che
letteralmente si rompe sulle rocce, cadendo irrealisticamente in rettilineo e
con degli effetti non degni del confronto con gli altri presenti nel film.
La pellicola si chiude con una panoramica dall’alto e un
canto in dialetto lucano proveniente da un luogo sconosciuto del paese.
RIVOLUZIONARIETÀ E INSENSATEZZA
DELLA VIOLENZA:
Il tocco rivoluzionario di Fulci lo vediamo anche nel
descrivere, in una scena del film, l’incredulità del prete nello scoprire che
alcuni bambini erano dei guardoni, non sospettando che in realtà questi bambini
profanano le tombe, fumano, torturano le lucertole e guardano le prostitute in
azione con puntuale regolarità. Questi adulti in miniatura approfittano della
falsa idea che i grandi hanno della loro età per vivere un loro mondo
compiaciuto fatto di piccoli peccati, che nella mentalità del luogo verrebbero
visti come insospettabili aberrazioni e proprio per questo esercitano su di
loro un’attrazione irresistibile.
Il mito dei bambini come angeli
puri e innocenti è in frantumi, l’intelligenza degli adulti pure.
Significativa, in una delle prime
scene del film, l’espressione di un ragazzino che viene avvisato dell’arrivo
delle prostitute mentre si trova in chiesa a pregare; qui traspare, dalla sua
eccitazione e dal volto sudato, che in quel luogo sacro in realtà lui non stava
aspettando altro che quel segnale.
Allargando il discorso, si
possono citare numerosi altri esempi di morbosità gratuite di cui è pervaso il
film. Cosa sorprendente e coraggiosa, in un’epoca in cui nei film ad ogni gesto
insano corrispondeva ancora una precisa ragione di natura economica o una
giustificazione psicanalitica. In una scena ultracensurata, ad esempio, la
Bouchet costringe un imbarazzatissimo bambino a guardarla nuda solo per il
gusto perverso di farlo, giocando per puro passatempo con la sessualità ancora
latente del minore, esattamente per lo stesso motivo per cui quest’ultimo
tirava le pietre con la fionda alle lucertole: piccoli e adulti uniti dal gusto
per il puro sfizio insensato, a cui sfugge ogni logica, cosa impensabile per
qualsiasi thriller di matrice americana.
Ma la scena della Bouchet nuda
non fu l’unica ad essere censurata: prendiamo la scena stilisticamente più
complessa del film, quella del linciaggio della maciara, tagliata dalle tv per
la sua ferocia…
Campo lungo dall’alto, autoradio
a tutto volume per nascondere le grida, e si vedono gli energumeni entrare nel
cancello della maciara. La telecamera torna di colpo ad altezza umana. Inizia
il massacro, e si ha forse per la prima volta il binomio rock’n roll-brutalità,
futura delizia tarantiniana. Volendo, anche qui si potrebbe leggere la
stridente convivenza di modernità e preistoricità.
Si nota quanto gusto malato e
beffardo provino i carnefici nello sferrare pugni in faccia da dietro le
proprie spalle per sorprendere la vittima, schiacciarle le dita nel cancello e
colpirla con mazze ferrate e grosse catene. Quasi tutta la scena è ripresa in
soggettiva mossa attraverso gli occhi della Bolkan, con un montaggio
sorprendente ed effetti da manuale.
Qui si ha qualcosa che va oltre
la rabbia e la vendetta: è lo sfogo di un gruppo di sadici che hanno trovato il
modo di divertirsi senza avere scrupoli di coscienza, in quanto mandati in
missione da tutto il paese.
Mentre lo shock è ancora in atto,
la musica dell’autoradio cambia e si fa melodica, con un contrasto atto a
impedire che lo scossone dato allo spettatore si esaurisca: la canzone
(provocatoriamente d’amore!) è “Quei giorni insieme a te” della ex ‘cantante
della mala’ Ornella Vanoni, nel ’72 già passata da tempo a un repertorio
raffinato e sentimentale. Il brano, molto malinconico, fu scritto da Riz
Ortolani appositamente per la pellicola.
Nuovo stacco dall’alto ed abbiamo
il momento più lirico del film: mentre ancora prosegue la canzone, vediamo gli
assassini allontanarsi credendo morta la donna, e per la prima volta proviamo
pietà per questa figura apparsa meschina per tutto il film, in quanto ora
sappiamo definitivamente che i mostri sono gli altri, i ‘razionali’ vendicatori
del villaggio.
La maciara si trascina, nei suoi
ultimi istanti si arrampica insanguinata sulle rocce assolate per affacciarsi
alla modernissima autostrada e chiedere aiuto a gesti agli automobilisti che
vanno al mare. Ma questi, intere famiglie di persone perbene, pur vedendola
continuano a ridere e a scherzare tra di loro come nulla fosse, forse per
semplice indifferenza, forse per non arrivare troppo tardi alla meta
vacanziera.
Al ralenty vediamo, nella
soggettiva falsata della morente, anche un bambino biondo con la faccia
d’angelo e una grossa palla tra le mani, che nel vederla resta indifferente
come di fronte ad un essere inferiore. A questo ralenty corrispondono
perfettamente le ultime, struggenti note del brano della Vanoni.
Questa scena, pesantemente
simbolica, è quella che più resta impressa di tutto il film.
Il capovolgimento dei ruoli ora
si allarga diventando una critica senza speranze alla società benestante. Non
si salva più nessuno. La canzone si spegne compassionevolmente insieme al
personaggio della Bolkan.
Si torna al resto del film con
una strana sensazione di spaesamento, come se si ritrovassero gli altri
personaggi non dopo pochi minuti ma dopo un lunghissimo viaggio scioccante e
irreale in cui sembrava di vivere una storia parallela talmente forte da essere
decontestualizzata e da farti scordare come si era giunti fin lì.
Da qui in poi il film si snoda
come uno dei più perfetti congegni del giallo italiano. La perfezione e la
veridicità della trama per Fulci era indispensabile, soprattutto quando era
affiancato dal geniale coautore e sceneggiatore Roberto Gianviti, mai
considerato dall’intellighenzia critica per quello che valeva.
Fulci, da parte sua, su questo
piano era particolarmente intransigente: quando ha voluto fare trame libere
dalla logica ha adottato il genere horror. O ineccepibilità o totale anarchia
visionaria, senza vie di mezzo. Lo splatter l’ha reso celebre nel mondo, ma in
tale genere ha conquistato un tipo di pubblico più voyeur che raffinato, il che
lo pone una spanna al di sotto del collega Argento, che nell’horror ha adottato
uno stile più sobrio ed elegante. Fulci è il re del giallo (italiano e non
solo).
Un esempio di grande inventiva -
oltre che di indovinato montaggio - si ha per esempio nella scena in cui si
mostra la Bouchet metter giù il telefono con aria sospetta da un Autogrill dopo
che una delle future vittime era stata invitata da qualcuno (via telefono,
naturalmente) a raggiungerlo/a fuori di casa: dopo l’uccisione, noi vedremo la
donna addirittura negare di essere uscita la sera! Obiettivamente non è facile
per lo spettatore immaginare chi altri potesse avere chiamato il ragazzino se
non lei, che palesemente nascondeva qualcosa (più avanti scopriremo che si
trattava di una dipendenza da droghe). Vedere per credere.
Così come è difficile non fare
ricadere nuovamente i sospetti sulla donna del nord dopo che un altro ragazzo,
da cui lei si era appena fatta riparare una gomma della macchina, viene trovato
morto. Solo nel finale ricolleghiamo che il sacerdote si era appena lanciato
alla ricerca disperata del piccolo per salvarlo dal pericolo del misterioso
killer…
Il decadimento per motivi di
salute e di budget della sua (pur filosoficamente coerente) opera, ma anche la
sua frequentazione più o meno forzata dello splatter, hanno relegato il regista
romano fra gli autori trash del nostro secolo o comunque di serie B.
Ma a differenza di altri suoi
rispettabili colleghi come Lenzi e Margheriti, a cui il suo nome viene
associato, Fulci non era un regista per commissione o perlomeno personalizzava
le trame che gli si proponevano riscrivendole da zero.
Non hanno marciato a suo favore
nemmeno altri elementi, come i titoli che i produttori gli imponevano per i
suoi film - su questo il regista non aveva nessuna voce in capitolo - quasi
sempre ridicoli come quello della pellicola di cui vi ho parlato fin ora. I
titoli con i nomi di animali andavano di moda sulla scia dei successi di
Argento, che tra l’altro Lucio non sopportava.
Poi, le uscite dei suoi film
erano quasi sempre fissate intorno a ferragosto, il che significava la morte
commerciale dei film!
Non ultimi, hanno giocato contro
di lui anche il suo carattere terribile e gli attacchi alla Chiesa (cominciati
col suo “Beatrice Cenci”) in un’epoca in cui ancora non si poteva essere
anticlericali. Non a caso la terza scena tagliata da “Non si sevizia un
paperino” è proprio quella del prete assassino che si sfigura cadendo dal
dirupo.
In definitiva sull’artigiano
Fulci si può dire che resta il primo regista (e tuttora uno dei pochi) ad aver
coniugato le immagini forti con aspetti puramente subliminali e psicologici,
mentre solitamente si è sempre scelto (anche oggi) tra la sottigliezza del
suggerimento o il brutale colpo allo stomaco.
Sicuramente non sapeva di stare
delineando una sua riconoscibile poetica attraverso i suoi pur diversissimi
film. Inconsapevole come tutti gli artisti, oltre che un poeta maledetto era a
suo modo un disperato romantico.
So che non è così, ma mi piace
pensare al decadimento della sua opera come ad una parabola dell’inevitabile e
sconsolato decadimento della vita stessa.
In più ci si potrebbe porre una
domanda: cosa avrebbe potuto fare Lucio coi mezzi di oggi e la creatività degli
anni ‘70?
CURIOSITÀ:
Pur senza plagi, l’ambientazione
di “Non si sevizia un paperino” - e anche la scelta di location pugliesi
per fittizie ambientazioni lucane - è stata ripresa da Salvatores per “Io
non ho paura”, e, prima di questo, qualcuno avrà notato pesanti affinità
stilistiche con il magnifico “La corsa dell’innocente” di Carlo Carlei,
altro silenzioso discepolo di Fulci.
Giovanni Modica (recensione fatta nel 2006)