sabato 9 marzo 2013

BOOGEYMAN - UOMO NERO di Stephen T. Kay

C’è stato un lungo periodo in cui moltissime persone fra cui il sottoscritto hanno bollato l’horror come un genere banale, non proprio intelligente e fondamentalmente per degenerati cultori del macabro e del cattivo gusto. Erano gli effetti dei lontani anni ’80, in cui il puro splatter era diventato sinonimo del genere. C’è voluto del tempo perché io mi ricredessi , e ci sono voluti film come  “Ringu” e qualche vecchia pellicola italiana di pregio come “Suspiria” e “L’orribile segreto del dottor Hichcock” per farmi capire che c’era anche dell’altro, come una forte componente psicanalitica e una spiccata visionarietà che si avvicina all’arte astratta.
È un genere che potrebbe/dovrebbe essere distinto in 2 tronconi, uno riguardante il puro ‘splatterume’, stile “Dal tramonto all’alba”, e l’altro che si rifà al gotico, all’onirico e alle paure nascoste, come il filone più moderno che ha finalmente ritrovato lo stile precedente al sopracitato decennio degli effettacci.
Il film “Boogeyman” è perfettamente inserito nella seconda categoria di cui sopra: niente pomodoro e niente mutilazioni, tanto da potersi definire semplicemente un pregevole fantathriller sofisticato stile “Sette note in nero”, “The others” o “Il sesto senso”. Con l’ormai immancabile componente del trauma infantile, il cui tema venne sviluppato per le prime volte proprio in Italia coi film di Argento, Bava e Martino (ma gli americani si guardano bene dall’ammetterlo). Il tema della crudeltà infantile, invece, essendo “politically incorrect”, rimarrà sempre un patrimonio del cinema europeo, e ciò non è certo un male.
Molto significativa è la scelta che si è avuta dagli anni ’90 in poi, di abbandonare parzialmente le nefande stranezze su zombie e mostri nati da esperimenti scientifici in favore di leggende classiche e superstizioni antiche, che affiorano da scrigni riaperti dopo secoli. La paura del diavolo, a causa della nostra cultura cristiana, è stata molto rappresentata in passato in quanto argomento quasi-serio, e così oggi si prediligono temi che per il fatto di averci fatto regolarmente sorridere da adulti non sono mai stati trattati seriamente, come la strega delle favole neozelandesi sui dentini caduti ai bimbi (“Al calare delle tenebre”, nelle sale due estati fa), la diceria nipponica che il mare ospiti le anime dei morti che ha dato il la alla saga di “Ringu” (dice Hideo Nakata che tale leggenda sia nata dalle continue alluvioni giapponesi) o appunto il famoso Boogeyman-uomo nero, ovvero nientemeno che il Babau di una volta!
Le tradizioni che tornano per dirci sostanzialmente due cose: 1: noi esistiamo da secoli e i vostri zombie no, e 2: da piccoli credevate in noi perchè eravate più puri, ergo noi esistiamo.
Ciò che è sepolto nella memoria e nell’inconscio dei personaggi spesso a causa dell’educazione ricevuta è un terreno che nobilita il genere e lo riporta paradossalmente ad un terreno più umano che fantastico, svelando nel nuovo horror/fantathriller una profondità che generi più ‘per bene’ come la fantascienza e l’azione non hanno mai avuto. L’unico tratto in comune rimasto nel genere dalla sua nascita è la rappresentazione, più meno analitica, della paura. 

Ma veniamo al film in sé. La vicenda prende il volo da quando la psichiatra infantile che aveva avuto in cura Tim suggerisce all’ex paziente ormai adulto di prendere il toro per le corna e tornare nella casa che tanto lo terrorizza per la tragica morte del padre. Ma la storia intriga fin dall’inizio grazie soprattutto alla credibilità dei dialoghi.
Sam Raimi ha voluto produrre una storia assolutamente classica e lontana dai suoi gusti di un tempo, dando credito a un regista e ad attori sconosciuti ai più, ma tutti molto credibili nei loro ruoli, come capita spesso in questo tipo di produzioni per metà neozelandesi come per il già citato “Al calare delle tenebre”. Niente di nuovo, quindi, ma tutto fatto con ingredienti onesti e di prima scelta, il che fa decisamente la differenza.
Così come fa la differenza il non volere mostrare agli altri personaggi del film – e in parte anche agli spettatori – quanto sia vero l’incubo che vive Timmy (Barry Watson), rappresentando così al meglio il suo isolamento per oltre metà film, al punto che anche a noi, di fronte allo schermo, pur a conoscenza della soprannaturalità della storia, viene da sospettare che possano avere ragione gli increduli personaggi a cui lui trova il coraggio di svelare il mistero. L’identificazione non è solo con Timmy, ma anche con Jessica, la sua ragazza, e soprattutto con Kate, l’amica di infanzia che si ritroverà con lui a fronteggiare il mostruoso nemico.
C’è anche l’immancabile figura ‘spiritica’ di una bambina che gli offre la soluzione che però lui sarà chiamato a dovere interpretare, disseminata fra le parole di un discorso apparentemente casuale. Le dice lui, dubitando a un certo punto di se stesso:“non è vero nulla; mio padre diceva: ‘devi contare fino a 5’”; e lei, con l’espressione di un apparente sfottò: “… e che succede se arrivi a 6?”.
La soluzione finale sta tutta qui, nel capire il significato nascosto di questa battuta fintamente criptica e inutile, ma che in realtà nasconde una verità banale al punto che lo spettatore, ingannato,  stenta ad afferrarla subito così come stenta il protagonista. La sconfitta di un mostro ‘nato’ nell’infanzia si trova nelle idee semplici a cui una vittima ormai adulta non è più abituata.
Stilisticamente il film è molto ricercato: gli effetti speciali, che non vogliono strabiliare ma solo essere funzionali alla storia, sono concentrati tutti nel prologo e nel finale contenente molte scene da film ‘sobbalzone’. Per il resto, ci sono alcune sequenze di flashback ‘rivelatore’ nei punti più imprevedibili e, nota alquanto originale, visivamente amalgamati al resto del film senza il consueto ausilio di immagini sfocate o di partiture differenti in sottofondo.
L’apporto delle musiche è di tipo decisamente hitchcockiano (sembra di sentire Bernard Herrmann), cosa oggi più in uso nel fantasy - vedi “Le verità nascoste” -  che nel giallo-thriller, genere tipico del maestro inglese.
In definitiva, chiamiamo pure Boogeyman film d’evasione… Ma non definiamolo disimpegnato nei due sensi del termine: magari tutti i film d’evasione fossero fatti con la stessa cura. 

Giovanni Modica (recensione fatta nel luglio del 2005)

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