È un genere che potrebbe/dovrebbe
essere distinto in 2 tronconi, uno riguardante il puro ‘splatterume’, stile “Dal
tramonto all’alba”, e l’altro che si rifà al gotico, all’onirico e alle
paure nascoste, come il filone più moderno che ha finalmente ritrovato lo stile
precedente al sopracitato decennio degli effettacci.
Il film “Boogeyman” è
perfettamente inserito nella seconda categoria di cui sopra: niente pomodoro
e niente mutilazioni, tanto da potersi
definire semplicemente un pregevole fantathriller sofisticato stile “Sette
note in nero”, “The others” o “Il sesto senso”. Con l’ormai
immancabile componente del trauma infantile, il cui tema venne sviluppato per
le prime volte proprio in Italia coi film di Argento, Bava e Martino (ma gli
americani si guardano bene dall’ammetterlo). Il tema della crudeltà infantile,
invece, essendo “politically incorrect”, rimarrà sempre un patrimonio del
cinema europeo, e ciò non è certo un male.
Molto significativa è la scelta
che si è avuta dagli anni ’90 in poi, di abbandonare parzialmente le nefande
stranezze su zombie e mostri nati da esperimenti scientifici in favore di
leggende classiche e superstizioni antiche, che affiorano da scrigni riaperti
dopo secoli. La paura del diavolo, a causa della nostra cultura cristiana, è
stata molto rappresentata in passato in quanto argomento quasi-serio, e così
oggi si prediligono temi che per il fatto di averci fatto regolarmente
sorridere da adulti non sono mai stati trattati seriamente, come la strega
delle favole neozelandesi sui dentini caduti ai bimbi (“Al calare delle
tenebre”, nelle sale due estati fa), la diceria nipponica che il mare
ospiti le anime dei morti che ha dato il la alla saga di “Ringu” (dice
Hideo Nakata che tale leggenda sia nata dalle continue alluvioni giapponesi) o
appunto il famoso Boogeyman-uomo nero, ovvero nientemeno che il Babau di una
volta!
Le tradizioni che tornano per
dirci sostanzialmente due cose: 1: noi esistiamo da secoli e i vostri zombie no,
e 2: da piccoli credevate in noi perchè eravate più puri, ergo noi esistiamo.
Ciò che è sepolto nella memoria e
nell’inconscio dei personaggi spesso a causa dell’educazione ricevuta è un
terreno che nobilita il genere e lo riporta paradossalmente ad un terreno più
umano che fantastico, svelando nel nuovo horror/fantathriller una profondità
che generi più ‘per bene’ come la fantascienza e l’azione non hanno mai avuto.
L’unico tratto in comune rimasto nel genere dalla sua nascita è la
rappresentazione, più meno analitica, della paura.
Ma veniamo al film in sé. La
vicenda prende il volo da quando la psichiatra infantile che aveva avuto in
cura Tim suggerisce all’ex paziente ormai adulto di prendere il toro per le
corna e tornare nella casa che tanto lo terrorizza per la tragica morte del
padre. Ma la storia intriga fin dall’inizio grazie soprattutto alla credibilità
dei dialoghi.
Sam Raimi ha voluto produrre una
storia assolutamente classica e lontana dai suoi gusti di un tempo, dando
credito a un regista e ad attori sconosciuti ai più, ma tutti molto credibili
nei loro ruoli, come capita spesso in questo tipo di produzioni per metà
neozelandesi come per il già citato “Al calare delle tenebre”. Niente di
nuovo, quindi, ma tutto fatto con ingredienti onesti e di prima scelta, il che
fa decisamente la differenza.
Così come fa la differenza il non
volere mostrare agli altri personaggi del film – e in parte anche agli
spettatori – quanto sia vero l’incubo che vive Timmy (Barry Watson),
rappresentando così al meglio il suo isolamento per oltre metà film, al punto
che anche a noi, di fronte allo schermo, pur a conoscenza della
soprannaturalità della storia, viene da sospettare che possano avere ragione
gli increduli personaggi a cui lui trova il coraggio di svelare il mistero.
L’identificazione non è solo con Timmy, ma anche con Jessica, la sua ragazza, e
soprattutto con Kate, l’amica di infanzia che si ritroverà con lui a
fronteggiare il mostruoso nemico.
C’è anche l’immancabile figura
‘spiritica’ di una bambina che gli offre la soluzione che però lui sarà
chiamato a dovere interpretare, disseminata fra le parole di un discorso
apparentemente casuale. Le dice lui, dubitando a un certo punto di se
stesso:“non è vero nulla; mio padre diceva: ‘devi contare fino a 5’”; e lei,
con l’espressione di un apparente sfottò: “… e che succede se arrivi a 6?”.
La soluzione finale sta tutta
qui, nel capire il significato nascosto di questa battuta fintamente criptica e
inutile, ma che in realtà nasconde una verità banale al punto che lo
spettatore, ingannato, stenta ad
afferrarla subito così come stenta il protagonista. La sconfitta di un mostro
‘nato’ nell’infanzia si trova nelle idee semplici a cui una vittima ormai
adulta non è più abituata.
Stilisticamente il film è molto
ricercato: gli effetti speciali, che non vogliono strabiliare ma solo essere
funzionali alla storia, sono concentrati tutti nel prologo e nel finale
contenente molte scene da film ‘sobbalzone’. Per il resto, ci sono alcune
sequenze di flashback ‘rivelatore’ nei punti più imprevedibili e, nota alquanto
originale, visivamente amalgamati al resto del film senza il consueto ausilio
di immagini sfocate o di partiture differenti in sottofondo.
L’apporto delle musiche è di tipo
decisamente hitchcockiano (sembra di sentire Bernard Herrmann), cosa oggi più
in uso nel fantasy - vedi “Le verità nascoste” - che nel giallo-thriller, genere tipico del
maestro inglese.
In definitiva, chiamiamo pure Boogeyman
film d’evasione… Ma non definiamolo disimpegnato nei due sensi del termine:
magari tutti i film d’evasione fossero fatti con la stessa cura.
Giovanni Modica (recensione fatta nel luglio del 2005)
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