Con l’aggettivo ‘seminale’
solgono definirsi solo alcuni film nella storia del cinema, e non sempre si
tratta dei titoli rimasti incisi nell’immaginario collettivo. Spesso si tratta infatti
di opere minori o di relativo successo, ma che hanno posto solide basi per
nuovi filoni, tendenze e topoi
all’interno della settima arte. Come definire altrimenti Shadow of a Doubt, (it: L’ombra
del dubbio, 1943), nientemeno l’opera di cui il celebre Alfred Hitchcock
andava maggiormente orgoglioso? Tra i film del regista, si può azzardare un
paragone solo con Delitto per delitto
(per via dello scambio di commissioni delittuose tra due personaggi, ripresa
innumerevoli volte ispirandosi più al film che al romanzo di Patricia Highsmith
da cui esso trasse la trama), o Psycho
(per via dello sdoppiamento di personalità), ma in questi casi si tratta di
film celeberrimi e quindi non bisognosi di alcuna presentazione particolare.
Ben diverso è il caso del film di cui
stiamo scrivendo ora: in L’ombra del
dubbio la trama è riassumibile in poche righe, ma non è certo nella
struttura che va ricercato il valore seminale del film. In questa storia, che
vede il ritorno di un losco individuo, tale Charlie (Joseph Cotten, l’unico
divo del film), in seno alla famiglia di Santa Rosa in cui era cresciuto e da
cui si era distaccato molti anni prima, assistiamo alla rappresentazione di un
assassino assolutamente inedita fino ad allora, dato che questo personaggio -
un assassino di ricche vedove - è non soltanto il protagonista del film ma
anche una persona dal comportamento e dall’eloquio del tutto rispettabile e
perfino gradevole fino a circa metà pellicola. L’incipit del film ci porta a
sospettare che i due individui (loro sì, in apparenza poco rassicuranti) che lo
tallonano non siano altro che creditori se non addirittura malavitosi che vogliono
vendicarsi per qualche ‘soffiata’ ai loro danni. In realtà, dopo almeno quaranta
minuti di film, scopriremo che i due altri non sono che agenti di polizia, e
che il tanto amato zio Charlie è tornato nella cittadina di Santa Rosa solo per
rifugiarsi in un luogo insospettabile, dove non lo avrebbe cercato nessuno.
Hitch, quindi, in questo suo primo lavoro di ambientazione americana, per la
prima volta rovescia gli archetipi classici. Gli spettatori dell’epoca non
erano abituati a vedere un cattivo nel ruolo di protagonista e per di più così approfondito
sul piano psicologico; erano abituati a vedere i malavitosi come figure
concentrate solo ed esclusivamente sui loro progetti nefandi, per nulla
propensi a discorrere su temi generali della vita in modo spicciolo e
quotidiano. Non erano abituati ad affezionarsi al Male. Tutto ciò rende L’ombra del dubbio un film altamente
spiazzante con un meccanismo di tensione a lenta carburazione, quasi un
cross-over tra la commedia della prima mezz’ora – data dal confronto tra i
simpatici personaggi della famiglia e il nuovo ospite – e il dramma che
caratterizza il prosieguo della storia.
In particolare, dal momento in cui la nipote Carla viene a conoscenza
per la prima volta del passato dell’uomo leggendo un articolo in emeroteca, assistiamo
a una metamorfosi progressiva di contenuto e stile. Da quel momento in poi,
infatti, il clima del film si fa più teso e sulfureo, i commenti di Charlie
sulla vita sempre più ficcanti e maligni, come ad esempio una sua considerazione
rabbiosa contro il fenomeno sociale delle ricche vedove che dopo la morte dei
loro consorti dissipano nel vizio i risparmi accumulati in una vita dai loro
mariti. Ed è proprio in questo discorso, tenuto a cena di fronte all’intera
famiglia, che mostra tutta la sua vera personalità; a quel punto noi spettatori
sappiamo già cosa egli aveva fatto, e sappiamo perfettamente come interpretare
le sue parole. Charlie è un ambiguo giustiziere con una sua morale distorta ma
precisa, in bilico tra l’ansia di fare giustizia e l’opportunismo più criminale
che possa esistere. L’intento dichiarato di Hitchcock di voler shoccare
l’ingenuo spettatore dell’epoca mostrando l’insediamento di una serpe in seno a
una famiglia perbene è esemplificato per intero in questa singola scena.
Lo svincolo narrativo
determinante lo abbiamo quando in città giunge l’erronea notizia che il famoso
“assissino di vedove” è stato ucciso mentre tentava di scappare. Come detto, la
nipote Carla è l’unica a sapere che in realtà il vero colpevole non era l’uomo
di cui parlano i giornali ma colui che fino a un giorno prima era il secondo
indiziato, ovvero suo zio, e ne ha conferma notando le iniziali di una delle
vedove uccise incise sull’anello che lui le aveva regalato, non può tuttavia informare la polizia del fatto finché lui rimane
nella sua casa per non suscitare lo scandalo della città intorno alla famiglia
(siamo nel 1943). Logicamente lui, sapendo questo, se ne guarda bene dal
lasciare il luogo. Tuttavia l’uomo decide di non fidarsi troppo della
salvaguardia del ‘buon nome familiare’ ventilata da Carla e cerca invano di
ucciderla in un paio di occasioni. Con uno stratagemma, allora, finge di voler
partire con l’unico fine di trattenere sul treno la nipote e scaraventarla dal
mezzo poco dopo la partenza. Ma nella colluttazione Carla ha la meglio ed è lui
a venire scaraventato fuori e travolto da un altro treno. In linea con il suo
humour nero, il regista ci mostra la scena sovrapponendole le immagini di un
giro di valzer sulle note de “La vedova allegra”.
Tutto torna come prima: a Santa
Rosa l’uomo sarà pianto come vittima di una disgrazia, e la ragazza tiene tutta
la verità nascosta per non turbare l’ambiente e soprattutto per proteggere da
un’atroce delusione l’affezionatissima madre. Coerentemente, la parte oscura
della famiglia resta sepolta nell’oscurità.
Degno di nota è il divertente svincolo narrativo che vede a più riprese,
e per la durata di tutto il film, il padre di Carla Joseph intento a discutere
con Herbie, un suo amico appassionato di gialli, su quale sia il modo più
pratico per uccidere la gente: egli sostiene che gli autori europei siano
‘troppo fantasiosi’ e scelgono modi poco pratici e eccessivamente contorti per
uccidere. “Niente è funzionale più di una bella botta in testa!”, è l’obiezione
più classica di Joseph. Autoironia per eccellenza, considerato che l’autore
europeo Alfred Hitchcock è il più famoso inventore di delitti macchinosi che si
abbia in cinematografia.
Giovanni Modica (recensione fatta nel novembre del 2012)
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