I personaggi dolenti, quelli
dall’aria stravissuta di chi non si stupisce più di nulla e quelli che vivono
in silenzio senza più curiosità procedendo nei loro ‘sporchi lavori’ con
inerzia. I tipi solitari e stanchi che fanno immaginare in chi li vede, magari
seduti al bancone di un fumoso locale notturno, chissà quali misteriose
esperienze alle spalle delle loro strane figure. Ecco il tipo giusto di
personaggi per una storia di polizia o di spionaggio che sia veramente seria ed
adulta, di quelle nate da una tradizione che si era estinta perchè non veniva
ornata da ammiccamenti fuoriluogo indirizzati a ragazzini, ragazzine o maniaci
del sangue. Poco tempo fa, i francesi ci avevano già dato un esempio delle loro
buone intenzioni con Nido di vespe, un
action movie senza smargiassate né
battute idiote Bond-style. Più in là nel tempo Frankenheimer aveva ambientato a
Nizza il suo Ronin sapendo, da
vecchio intenditore, che proprio la Francia è la terra in cui questo seducente
stile fiorì moltissimi anni prima e nella quale stava felicemente rinascendo
dopo decenni di forzato riposo. “Riappropriamoci della nostra tradizione”
sembra essere uno degli imperativi maggiormente ripetuti oggi fra i produttori
parigini.
Ecco ora “36 - Quai des orfèvres” (indirizzo del Commissariato di Parigi,
reso celebre da Géorges Siménon),
un’opera capace di oscurare il celebre Mystic
river di Eastwood diretta dello sconosciutissimo - almeno da noi - Olivier
Marchal. Basato su una storia vera, questo film con Gérard Depardieu, Daniel
Auteuil e André Dussollier funziona come una matrioska, con una sorpresa
nascosta dentro un’altra che poi si rivela essere pretesto per qualcos’altro
ancora. Sembrano tre film scientificamente incastonati fra loro, e fino a dieci
minuti al termine non si riesce a capire non solo chi l’avrà vinta, ma anche
che cosa sta per ricrearsi nella trama. Mostrando un sistema giudiziario
francese, tutto sommato non così tanto distante dal nostro in quanto a
paradossi e cavilli, è normale che questa storia tenga facilmente alla larga il
pericolo dello sbadiglio.
La capitale francese appare qui
come una grigia città qualunque, forse una scelta precisa tesa a simboleggiare
l’universalità di certe situazioni.
Difficile capire fino a che punto
sia storia vera e fino a che punto invece frutto di fantasia. Darei per
scontato, infatti, che qualcosa di romanzato ci sia, vista la complicatezza del
plot; a meno che la realtà, in quel di Parigi, non abbia superato la fantasia
oltre ogni immaginabile!
Semplificando, si può raccontare
così l’ossatura della/e vicenda/e. Depardieu è un poliziotto avido di
conquistare una posizione, ma attende la sua occasione con una certa serenità.
Auteuil è un agente piuttosto classico, pieno di delusione nei confronti del
mondo, al punto che per il suo lavoro non esita a infiltrarsi in ambienti
oscuri e a familiarizzare col marcio della città, convinto di non rischiare di
perdere poi un granchè, con la sua vita. Unisce i due l’avere pochissimi
affetti e un tipico atteggiamento fatalista che permette loro di autoassolversi
per le loro debolezze senza troppi problemi. Ma quando il loro capo
(Dussollier) li pone di fronte al problema di dovere sgominare una famigerata
banda che scorrazza per Parigi da troppo tempo, qualcosa scatta nella testa di
Depardieu. Dopo aver messo a rischio un’intera operazione di polizia causando
una vittima fra gli agenti per la sua semplice volontà di primeggiare, viene a
conoscenza di un compromesso che l’altro poliziotto aveva accettato (ricattato
da un detenuto) al fine di catturare i criminali, e decide di
approfittarne per silurarlo e tornare in
lizza per la carica.
Fra voltafaccia e casualità si
dipanano le vicende private di Auteuil, che è il vero protagonista del film, ed
il suo personaggio cerca, con pacatezza ma invano, di contrastare il rassegnato
commissario che cerca di indurlo ad
accettare i mali minori per non fargli rischiare troppo.
Chi l’avrà vinta sarà Depardieu a
scapito di tutti raggiungendo l’agognata carica. Auteuil andrà ingiustamente in
galera per il suo ‘compromesso criminale’ a fin di bene, mentre lui causerà
un’altra morte innocente per cui non pagherà.
Ma c’è qualcosa che deve ancora
nascere, e… a questo punto scelgo di non svelare più nulla per non rovinare gli
ultimi sorprendenti minuti a chi avrà voglia di vedere questo film. Basti dire
che sarà una sorta di “giustizia divina” del tutto originale a pareggiare i
conti.
Quello di 36 - Quai des orfèvres è un meccanismo che si rimette in moto ogni
30 minuti circa in modi sempre diversi, riuscendo anche a far dimenticare la
recitazione della sempre imbarazzante Valeria Golino nel ruolo della donna di
Auteuil, la cui presenza nel film va sicuramente ad annoverarsi all’improvvisa
moda francese di mettere un’attrice italiana nel cast anche quando non c’è
coproduzione.
Le scene che si fanno ricordare
sono soprattutto quelle legate alle immagini senza parole sullo sfondo scuro ed
opaco di una fotografia scelta per indicare una certa indolenza dei sentimenti.
Siamo lontani dagli occhi sbarrati e le frasi gridate di certe odiose
produzioni italiane, soprattutto televisive, di questo genere.
Notevole è ad esempio la scena
introduttiva (poi ripetuta), che vede Auteuil in preda ai singhiozzi nella sua
cella. I suoi lamenti li sentiamo irrealmente già da lontano anche quando nelle
prime immagini la macchina da presa resta nel buio esterno al di fuori del
carcere. Quando gradualmente si entra nell’ambiente, il volto di lui resta
semioscurato. Inutile spiegare perché.
L’angoscia è descritta come
qualcosa di intimo e invitabile, e ci vengono risparmiate frasi cretine
all’americana (o all’italiana) del tipo “Perché proprio a me” o “È
un’ingiustizia!”.
L’epilogo che vede Auteuil
insieme alla figlia ormai cresciuta è tenero e rasserenante; ma senza alcuna
furbizia melensa. La pornografia dei sentimenti non fa capolino, la dolcezza
espressa per sottrazione sì.
L’impressione che il rarefatto
dialogo tra di loro dà è quella di un’inattesa
sospensione dal tempo reale, di qualcosa che si colloca a parte nella
struttura così veloce e costruita del film per ritagliarsi uno spazio
inattaccabile nella memoria dello spettatore.
Cosa aggiunge questo film a ciò
che già c’era? Dunque, tenendo conto che le sue tante sorprese sono al servizio
dell’idea che la vendetta va servita fredda - e che questa non è una cosa molto
nuova - verrebbe da dire nulla.
Salvo le emozioni. Di un tipo che
era stato dimenticato. A me non sembra poco.
Giovanni Modica (recensione fatta nel gennaio del 2005)
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