giovedì 7 marzo 2013

36 - QUAI DES ORFEVRES di Olivier Marchal

I personaggi dolenti, quelli dall’aria stravissuta di chi non si stupisce più di nulla e quelli che vivono in silenzio senza più curiosità procedendo nei loro ‘sporchi lavori’ con inerzia. I tipi solitari e stanchi che fanno immaginare in chi li vede, magari seduti al bancone di un fumoso locale notturno, chissà quali misteriose esperienze alle spalle delle loro strane figure. Ecco il tipo giusto di personaggi per una storia di polizia o di spionaggio che sia veramente seria ed adulta, di quelle nate da una tradizione che si era estinta perchè non veniva ornata da ammiccamenti fuoriluogo indirizzati a ragazzini, ragazzine o maniaci del sangue. Poco tempo fa, i francesi ci avevano già dato un esempio delle loro buone intenzioni con Nido di vespe, un action movie senza smargiassate né battute idiote Bond-style. Più in là nel tempo Frankenheimer aveva ambientato a Nizza il suo Ronin sapendo, da vecchio intenditore, che proprio la Francia è la terra in cui questo seducente stile fiorì moltissimi anni prima e nella quale stava felicemente rinascendo dopo decenni di forzato riposo. “Riappropriamoci della nostra tradizione” sembra essere uno degli imperativi maggiormente ripetuti oggi fra i produttori parigini.
Ecco ora “36 - Quai des orfèvres” (indirizzo del Commissariato di Parigi, reso celebre da Géorges Siménon), un’opera capace di oscurare il celebre Mystic river di Eastwood diretta dello sconosciutissimo - almeno da noi - Olivier Marchal. Basato su una storia vera, questo film con Gérard Depardieu, Daniel Auteuil e André Dussollier funziona come una matrioska, con una sorpresa nascosta dentro un’altra che poi si rivela essere pretesto per qualcos’altro ancora. Sembrano tre film scientificamente incastonati fra loro, e fino a dieci minuti al termine non si riesce a capire non solo chi l’avrà vinta, ma anche che cosa sta per ricrearsi nella trama. Mostrando un sistema giudiziario francese, tutto sommato non così tanto distante dal nostro in quanto a paradossi e cavilli, è normale che questa storia tenga facilmente alla larga il pericolo dello sbadiglio.
La capitale francese appare qui come una grigia città qualunque, forse una scelta precisa tesa a simboleggiare l’universalità di certe situazioni.
Difficile capire fino a che punto sia storia vera e fino a che punto invece frutto di fantasia. Darei per scontato, infatti, che qualcosa di romanzato ci sia, vista la complicatezza del plot; a meno che la realtà, in quel di Parigi, non abbia superato la fantasia oltre ogni immaginabile! 
Semplificando, si può raccontare così l’ossatura della/e vicenda/e. Depardieu è un poliziotto avido di conquistare una posizione, ma attende la sua occasione con una certa serenità. Auteuil è un agente piuttosto classico, pieno di delusione nei confronti del mondo, al punto che per il suo lavoro non esita a infiltrarsi in ambienti oscuri e a familiarizzare col marcio della città, convinto di non rischiare di perdere poi un granchè, con la sua vita. Unisce i due l’avere pochissimi affetti e un tipico atteggiamento fatalista che permette loro di autoassolversi per le loro debolezze senza troppi problemi. Ma quando il loro capo (Dussollier) li pone di fronte al problema di dovere sgominare una famigerata banda che scorrazza per Parigi da troppo tempo, qualcosa scatta nella testa di Depardieu. Dopo aver messo a rischio un’intera operazione di polizia causando una vittima fra gli agenti per la sua semplice volontà di primeggiare, viene a conoscenza di un compromesso che l’altro poliziotto aveva accettato (ricattato da un detenuto) al fine di catturare i criminali, e decide di approfittarne  per silurarlo e tornare in lizza per la carica.
Fra voltafaccia e casualità si dipanano le vicende private di Auteuil, che è il vero protagonista del film, ed il suo personaggio cerca, con pacatezza ma invano, di contrastare il rassegnato commissario  che cerca di indurlo ad accettare i mali minori per non fargli rischiare troppo.
Chi l’avrà vinta sarà Depardieu a scapito di tutti raggiungendo l’agognata carica. Auteuil andrà ingiustamente in galera per il suo ‘compromesso criminale’ a fin di bene, mentre lui causerà un’altra morte innocente per cui non pagherà.
Ma c’è qualcosa che deve ancora nascere, e… a questo punto scelgo di non svelare più nulla per non rovinare gli ultimi sorprendenti minuti a chi avrà voglia di vedere questo film. Basti dire che sarà una sorta di “giustizia divina” del tutto originale a pareggiare i conti.
Quello di 36 - Quai des orfèvres è un meccanismo che si rimette in moto ogni 30 minuti circa in modi sempre diversi, riuscendo anche a far dimenticare la recitazione della sempre imbarazzante Valeria Golino nel ruolo della donna di Auteuil, la cui presenza nel film va sicuramente ad annoverarsi all’improvvisa moda francese di mettere un’attrice italiana nel cast anche quando non c’è coproduzione.
Le scene che si fanno ricordare sono soprattutto quelle legate alle immagini senza parole sullo sfondo scuro ed opaco di una fotografia scelta per indicare una certa indolenza dei sentimenti. Siamo lontani dagli occhi sbarrati e le frasi gridate di certe odiose produzioni italiane, soprattutto televisive, di questo genere.
Notevole è ad esempio la scena introduttiva (poi ripetuta), che vede Auteuil in preda ai singhiozzi nella sua cella. I suoi lamenti li sentiamo irrealmente già da lontano anche quando nelle prime immagini la macchina da presa resta nel buio esterno al di fuori del carcere. Quando gradualmente si entra nell’ambiente, il volto di lui resta semioscurato. Inutile spiegare perché.
L’angoscia è descritta come qualcosa di intimo e invitabile, e ci vengono risparmiate frasi cretine all’americana (o all’italiana) del tipo “Perché proprio a me” o “È un’ingiustizia!”.
L’epilogo che vede Auteuil insieme alla figlia ormai cresciuta è tenero e rasserenante; ma senza alcuna furbizia melensa. La pornografia dei sentimenti non fa capolino, la dolcezza espressa per sottrazione sì.
L’impressione che il rarefatto dialogo tra di loro dà è quella di un’inattesa  sospensione dal tempo reale, di qualcosa che si colloca a parte nella struttura così veloce e costruita del film per ritagliarsi uno spazio inattaccabile nella memoria dello spettatore.
Cosa aggiunge questo film a ciò che già c’era? Dunque, tenendo conto che le sue tante sorprese sono al servizio dell’idea che la vendetta va servita fredda - e che questa non è una cosa molto nuova - verrebbe da dire nulla.
Salvo le emozioni. Di un tipo che era stato dimenticato. A me non sembra poco.
 
Giovanni Modica (recensione fatta nel gennaio del 2005)

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